Chi sono i «banchieri» a cui Gesù si riferisce nella parabola dei talenti?
Nella parabola dei talenti nel Vangelo di Matteo Gesù invita a affidare il denaro ai banchieri
Tutte le volte che mi trovo di fronte alla parabola dei talenti nel Vangelo di Matteo mi sorge una domanda e cioè se sia corretta la traduzione parlandosi nella circostanza di «banchieri» a cui il servo avrebbe dovuto affidare il talento ricevuto.
Pur tenendo conto che la sostanza del messaggio non cambierebbe e che gli Ebrei sono da sempre mercanti di tutto rispetto, chiedo se al tempo di Gesù fosse già possibile parlare di attività bancaria nel senso proprio del termine.
Risponde don Stefano Tarocchi, preside della Facoltà teologica dell’Italia centrale e docente di Sacra Scrittura
Il terzo schiavo della parabola – il cui commento integrale è rimandato ad altra occasione – è l’unico dei tre a restituire al suo padrone il denaro che gli era stato affidato senza averlo aumentato. Come scrive un celebre commentatore: «forse fino allora si era sentito sicuro, e l’insicurezza gli era venuta soltanto dal rendiconto suo e dei suoi colleghi, di cui era stato testimone. Egli pensava di aver fatto abbastanza conservando quanto gli era stato affidato. La motivazione del suo comportamento è il timore che egli ha del padrone, che conosce come uomo severo, estremamente attaccato ai suoi beni, finanche avaro, oltre che la paura di dover render conto. Gli è mancato il coraggio di impegnarsi» (J. Gnilka).
L’evangelista così scrive: «Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse» (Mt 25,26-27).
Il termine greco usato in Matteo tradotto con «banchieri» (lett. «quelli che si occupano del banco») deriva da trápeza, «tavolo». Questa è la parola usata da Luca nella parallela parabola delle mine (cf. Lc 19,23). Essa indica una superficie su cui si possono appoggiare cibi o altro, nell’ambiente familiare, oppure in un ambiente cultuale è utilizzata per indicare l’uso di consumare un pasto nel tempio delle divinità pagane.
Troviamo un riferimento chiaro a questa situazione anche in Paolo: «il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane. Guardate l’Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare? Che cosa dunque intendo dire? Che la carne sacrificata agli idoli vale qualcosa? O che un idolo vale qualcosa? No, ma dico che quei sacrifici sono offerti ai demòni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demòni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni» (1 Cor 10,16-21).
Inoltre, la parola «banco» può indicare anche il tavolo su cui i cambiavalute espongono le loro monete, e da questo si può derivare semplicemente il luogo dove si cambiavano le valute e dove era possibile ricevere un prestito, non di rado a un tasso molto alto.
Del resto, il termine «banca» dall’italiano antico ha influenzato la lingua inglese e francese. Nel libro degli Atti si legge, a proposito della scelta dei Sette: «non è giusto che noi [= i Dodici] lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle tavole» (At 6,2). L’espressione originale può contenere un gioco di parole, che mescola l’idea del servizio alle mense alle procedure tipicamente bancarie: «servire come contabili».
Di fatto, però, sia presso i babilonesi antichi che presso i greci, i templi divennero importanti «agenzie» di prestito. Riguardo questi ultimi, si parla dei santuari di Artemide a Efeso e a quello di Delfi nella Grecia classica, ma anche quello di Apollo a Delo nell’età ellenistica. Da un lato prestavano quanto ricevuto in offerta dai fedeli e grazie alla loro sacralità e inviolabilità, all’interno del loro recinto ospitavano anche i «tesori» della comunità civile, ovvero le riserve in oro e argento. I templi e santuari potevano perciò permettersi di prestare, su interesse anche molto alto, grosse quantità di denaro.
A un livello più basso c’erano i «banchi», sia in Grecia che a Roma, che svolgevano anch’essi ufficialmente l’attività di cambiavalute. Di fatto ricevevano denaro in deposito su interesse, e a loro volta lo prestavano su un interesse ancora più alto.
Peraltro, non c’erano solo le monete ma, ad esempio, nell’economia dell’antico Egitto la stessa funzione delle monete la prendevano ad esempio i cereali, che venivano ritirati dal deposito soltanto nel momento in cui erano usati. Oltre tutto, si trattava di beni che in alcune culture erano usati non solo come cibo ma anche per pagare gli stipendi.
In sostanza, nell’epoca in cui sono composti Vangeli non c’era un sistema bancario come quello moderno, ma i cambiavalute scambiavano monete di città diverse, semplificando i commerci, ma anche facendo uso delle monete di cui entravano in possesso. Quindi, il riferimento evangelico è più che sensato.