Chi è il “ricco epulone” del Vangelo, e perché finisce all’inferno
Nel Vangelo di Luca troviamo la parabola del giovane ricco e del povero Lazzaro. Sappiamo bene che quando muore Lazzaro viene portato nel seno di Abramo mentre il ricco finisce nei tormenti. A un certo punto c’è un breve dialogo fra Abramo e il ricco che invece che pentirsi si preoccupa della sorte dei suoi cinque fratelli. Si fosse mostrato pentito, il ricco sarebbe stato accolto da Abramo?Marco Giraldi
Risponde don Stefano Tarocchi, docente di Sacra Scrittura e preside della Facoltà teologica del’Italia centrale
Anzitutto non ce ne voglia il lettore, se prima di rispondere al suo quesito mettiamo a punto un elemento di fondamentale importanza. La parabola a cui si fa riferimento, tratta dal Vangelo secondo Luca, ha come protagonista un uomo ricco e Lazzaro, ossia un uomo che non ha nome e incarna tante possibili immagini, e colui che invece nel nome – abbreviazione di Eleazaro – porta la certezza che Dio è dalla sua parte: «Dio aiuta».Invece, il giovane ricco si trova rammentato altrove, nel racconto di un tale che interroga Gesù sulla strada per Gerico, ed esattamente nella versione secondo Matteo (Mt 19,16-24). Lo scopriamo soltanto durante la lettura, perché inizialmente è chiamato solo «un tale», «uno» (cf. Mt 19,20). Anche il Vangelo di Marco lo chiama così (Mc 10,17); Luca gli assegna un ruolo importante nella società civile (cf. Lc 18,18: «un notabile»).È molto interessante questa fusione fra testi diversi, perché testimonia che i passi della tradizione evangelica si fissano nella nostra memoria, e si muovono dentro noi alla ricerca di un significato.È giusto però aggiungere anche un’altra considerazione, non meno importante: la parabola è un racconto a sé stante, e non ha senso cercare un altro finale o un’altra conclusione, all’interno di quel racconto: il Vangelo non vuole parlarci attraverso i dettagli delle parabole, ma nel significato complessivo del racconto che le contiene.Così ciascuno da solo è chiamato a trovare una risposta a ciò che i quattro libretti di Matteo, Marco, Luca e Giovanni gli mettono davanti agli occhi. Se la narrazione avesse voluto avere uno svolgimento come quello che il lettore propone, si verrebbe a trattare di un’altra parabola e non quella che abbiamo davanti agli occhi.E qui possiamo andare per un momento al successivo dialogo fra Abramo e il ricco. Quest’ultimo, dopo la morte, cerca di convincere nel racconto della parabola lo stesso Abramo a dare ai suoi familiari, ancora in vita, l’occasione di fare quello che a lui è sfuggito irrimediabilmente: questo dice il racconto di Luca.Per capire meglio tutto questo dobbiamo mettere in luce altri aspetti importanti: per primo, come già abbiamo rammentato, che quell’uomo non ha nemmeno un nome. Quel tale «ricco», più che altro nella catechesi e nella predicazione di un tempo, veniva chiamato «epulone», ossia il «banchettatore», il «mangione». Di fatto, a Roma c’era un antico collegio sacerdotale (prima di 3, poi di 7 membri: gli epuloni), creato nel 196 a. C. per celebrare il sacrificio solenne, in forma di banchetto, nell’anniversario della fondazione del tempio di Giove Capitolino. In realtà, il Vangelo parla solamente di «un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti» (Lc 16,19).Ora, è la stessa trama del racconto che spinge verso l’interpretazione migliore: il ricco e il Lazzaro sono diversi semplicemente nel vivere e nelle occupazioni quotidiane. Il primo sembra dedicarsi solo ai banchetti, e il secondo stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe (Lc 16,20-21).Se è diversa la vita, lo è anche la morte: «un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto» (Lc 16,22). Proprio la morte segna una linea definitiva, che non può essere valicata né tantomeno prevedere un improbabile pentimento, che comunque non sarebbe disinteressato.Non si deve aggiungere nient’altro alla parabola. Come già diceva Tertulliano, filosofo e apologeta cristiano vissuto a cavallo fra il secondo e il terzo secolo, «noi non abbiamo bisogno … di cercare altro dopo aver conosciuto il Vangelo».In altre parole, bisogna accontentarsi della conclusione del Vangelo e accettare la parabola come essa è raccontata dall’evangelista, che riprende quanto già detto in un’altra parabola, quella dell’uomo preoccupato di costruire gli spazi adatti a contenere le sue ricchezze cioè «chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,21; cf. Lc 12,16-20).