Tutti sono salvati tramite Cristo. Ma anche chi crede in altre religioni, magari semplicemente perché nato in un altro posto, ha possibilità di salvarsi se agisce secondo coscienza.Da un lato, non possiamo negare che l’essere cristiani ci dia accesso a un qualche vantaggio, che accedere ai sacramenti sia meglio che non accedervi.Dall’altro, dobbiamo mantenere la giustizia del giudizio di Dio, e quindi il dare di base a ognuno una uguale possibilità di salvarsi.Come mantenere insieme le due cose?Se infatti dico che ognuno ha uguale probabilità di salvarsi, non si capisce perché credere in Cristo dovrebbe essere vantaggioso. Di contro, se dico che l’essere cristiano aumenta la mia probabilità di salvarmi, ciò non pare essere giusto per coloro che semplicemente non possono conoscere Cristo (perché nati in una società troppo chiusa, perché fisicamente irraggiungibili es. prima dello sviluppo della navigazione, eccetera).Tra le due prospettive, preferirei la seconda. Si può dire, per esempio, che un nazista è solo sfortunato, è nazista perché nato in Germania, se fosse nato in America sarebbe stato come tutti gli altri mentre molti americani nati in Germania sarebbero stati nazisti. Cionondimeno condannarlo rimane giusto. Però, in generale, i teologi oggi come mantengono insieme le due cose?Alessio MontagnerRisponde don Francesco Vermigli, docente di Teologia dogmaticaLa domanda posta dal nostro lettore è capitale, perché viene a toccare il senso più profondo della salvezza portata da Gesù. Mi pare che una risposta a una tale domanda debba porsi tra due poli apparentemente non componibili: che Cristo porta la salvezza e che di questo fatto non tutti siano a conoscenza. Nostra pretesa – nella brevità di questo testo – è di provare a mostrare che questi due poli in realtà possono essere composti tra di loro.Da un lato, dobbiamo mantenere fermo che non sia indifferente credere o non credere a Cristo. Se in Cristo «abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9), se Cristo, il Figlio Unigenito del Padre, è l’unico che è capace di manifestare Dio con verità («Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato»: Gv 1,18), se in lui Dio ha parlato una sola volta (cf. Eb 1,1), se Egli è colui che «compie e completa la Rivelazione» (Dei Verbum, 4), allora – se Gesù è tutto questo – si capisce da un lato l’affermazione della definitività della sua opera rivelatrice e salvifica («l’economia cristiana dunque, in quanto è l’Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai»: Dei Verbum, 4) e l’affermazione dell’unicità della mediazione di Cristo («uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù»: 1Tm 2,5). In altri termini, se guardiamo alla testimonianza evangelica, si prende con chiarezza l’idea della pienezza della rivelazione nella persona di Gesù. Questa pienezza di rivelazione trova prima ancora il proprio fondamento nella pienezza dell’identità divina (cf. Gv 1,1); perché solo chi appartiene in pienezza al mondo divino, può portare in pienezza Dio, come intuì il Concilio di Nicea contro Ario. Da questa idea fondamentale e irrinunciabile che ci viene dai Vangeli, derivano dunque le suddette affermazioni correlate: definitività e unicità della rivelazione nella persona di Cristo.Per questo, come si accennava sopra, di fronte a questa definitività e unicità non pare assolutamente fondato e ragionevole affermare che sia indifferente credere o non credere a Colui che fa conoscere il mistero della volontà salvifica di Dio (cf. Ef 1,9).Ma vi è un altro polo da considerare, che non può essere ugualmente lasciato passare. Il fatto cioè che la fede in Cristo non procede per illuminazione improvvisa ed esoterica, ma sorge nel cuore degli uomini specialmente dalla predicazione e dalla testimonianza dei credenti. In questo caso, nostra bussola sarà piuttosto Rm 10,14: «Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci?». Ne consegue che non rientra nell’ordine della giustizia considerare responsabili della propria incredulità, coloro a cui mai sia giunto l’annuncio su Cristo; cioè l’annuncio su Colui che è nella sua stessa persona la pienezza e la definitività della rivelazione.Dicevamo all’inizio che pare possibile comporre i due poli. Unicità della rivelazione e della salvezza cristologiche, da un lato, e incredulità, dall’altro, possono stare insieme solo se si intende la fede di chi già crede, come responsabilità nei confronti degli altri – come un tesoro ricevuto senza merito, ma che deve essere messo a frutto (cf. Mt 25,14-30, ma anche Lc 19,12-27) – e come assenso libero e che coinvolge tutta la persona (cf. Dei Verbum, 5), se a questa stessa persona responsabilmente il credente ha annunciato Cristo.