A proposito dell’eutanasia, chiedo: aiutare una persona che sta morendo, a farlo nella maniera più serena e indolore possibile, non è una forma di carità cristiana?Lettera firmataRisponde padre Maurizio Faggioni, docente di Teologia moraleLa domanda è precisa e non ammette giri di parole. La risposta è sì. Se una persona sta morendo, aiutarla a morire nel modo più sereno e indolore possibile è una forma squisita di carità. La filosofia sottesa alle cure palliative è proprio quella di non cercare di allontanare la morte che sopraggiunge, ma di accettarla e accompagnarla come un evento che fa parte della storia di una vita. È un estremo atto di cura della persona accompagnarla nell’ultimo tratto della sua esistenza, mantenendo sino alla fine la migliore qualità di vita possibile. Si comprende che si tratta di dare un’assistenza a tutto tondo che si prenda cura degli aspetti fisici, psicologici, relazionali, spirituali della persona. Non solo, quindi, bisogna evitare ogni forma di accanimento, cioè di interventi che inchiodano il malato alla sua sofferenza o, addirittura, aggiungono sofferenza a sofferenza, ma bisogna anche impegnarsi a eliminare la sofferenza sino alla scelta estrema della sedazione profonda o palliativa quando il paziente presenta sintomi refrattari a ogni terapia. Sedare il dolore è un atto divino, dicevano gli antichi e il Buon samaritano si china con misericordia sulle ferite dell’umanità.Mi viene il dubbio, però, che la nostra lettrice intendesse altro nella sua lettera. Ha scritto «aiutare nel morire» e questo è – come si diceva – un dovere umano e cristiano, ma forse ella voleva dire «aiutare a morire» cioè causare la morte di una persona sofferente, sia nella forma dell’assistenza al suicidio, sia nella forma dell’eutanasia del consenziente. Suicidio assistito ed eutanasia di consenziente stanno entrando a poco a poco nella mentalità degli Italiani e nel nostro sistema legislativo. In base alla legge 219 del 2017 si possono interrompere non solo le cure sproporzionate di cui l’accanimento rappresenta il parossismo, ma anche i mezzi minimali di sostegno vitale come idratazione e nutrizione artificiale indipendentemente dall’essere o meno in fase di terminalità. Queste interruzioni di impiego di mezzi e trattamenti possono essere del tutto legittime oppure avere invece un colore eutanasico a seconda delle situazioni concrete di ciascun malato. Riguardo al suicidio assistito è recente la tragica vicenda del DJ Fabo che non era terminale, cioè che non stava per morire, e che non dipendeva dalle macchine per la sua sopravvivenza, ma che era cieco e tetraplegico dopo un incidente stradale e non riusciva più a sopportare quella condizione. L’esito del dibattito in sede giuridica fu una sentenza della Corte costituzionale del 2019 che, di fatto, introduceva in Italia il suicidio assistito. La prossima battaglia in favore della morte sarà l’eutanasia del consenziente, oggetto di un referendum abrogativo giudicato inammissibile dalla Corte, ma per motivi che saranno facilmente superabili. Queste forme di eutanasia sono giustificare di solito con il richiamo alla volontà libera del soggetto, volontà libera si fa per dire, viste le situazioni drammatiche presupposte. Il punto d’arrivo di questo percorso in discesa sull’eutanasia sarà – non ci sono dubbi – l’eutanasia richiesta dagli anziani soli e depressi, come già sta accadendo in Olanda, e l’eutanasia di cerebrolesi e di altri disabili mentali, neonati o anche adulti che, comunque, non possono esprimere un consenso. Si afferma che, se potessero decidere, direbbero: «Fammi morire».Questa presunzione di morte si sta già verificando con l’aborto di soggetti portatori di handicap: è meglio per loro morire prima di nascere – si dice – piuttosto che vivere così e se essi potessero parlare direbbero: «Abortiscimi». Non si vede perché lo stesso argomento non potrebbe funzionare con i neonati portatori delle medesime patologie e giustificare così l’infanticidio. A tal proposito c’è già chi ha parlato di aborto postnatale. E come dimenticare il caso di Eluana Englaro che, essendo in stato vegetativo, non percepiva dolore e che il padre voleva che cessasse di vivere perché la vita della figlia – anche sulla base di asserite sue dichiarazioni – era «indegna». Dietro la maschera della pietà si può nascondere l’idea che ci sono vite che sono destituite di valore e che non è ragionevole né vivere, né tutelare. Io credo che essere malati o disabili non sia indegno dell’uomo. Indegno è abbandonare i piccoli, i malati, gli umili, indegno dell’uomo è uccidere un proprio fratello.Ripetiamo che «aiutare una persona che sta morendo, a farlo nella maniera più serena e indolore possibile, è una forma di carità cristiana», ma anticipare la morte di una persona sopprimendola mi pare una mostruosità. Dobbiamo eliminare le sofferenze, non i sofferenti. Gli Americani chiamano l’eutanasia «merciful killing», «uccisione pietosa». Ma di che pietà stiamo parlando? Come si può volere la morte di qualcuno che amiamo? Certamente ci sono storie di tale e talmente prolungata sofferenza che possono portare le persone alla disperazione, accecare la ragione e spingere malati e congiunti a desiderare la morte e a darla. Sono storie drammatiche che chiedono un silenzio rispettoso, un silenzio che non giustifica ciò che non si può giustificare e che lascia il giudizio a Colui che, solo, scruta i cuori.