«Agnello di Dio che togli i peccati del mondo». Eppure il peccato c’è ancora
Alla Messa diciamo «Agnello di Dio che togli i peccati del mondo». Eppure il peccato c'è ancora. Come vanno lette le parole della liturgia?
Ogni volta che diciamo «Agnello di Dio che togli i peccati del mondo», mi chiedo perché invece il peccato è ancora così presente tra gli uomini. Mi chiedo, come vanno interpretate queste parole? Magari la traduzione non è del tutto corretta?
Risponde don Stefano Tarocchi, docente di Sacra Scrittura
Il lettore fa riferimento all’espressione usata nella liturgia che parla usando il plurale: i peccati del mondo. Il verbo greco che Giovanni utilizza ha due significati: «prendere sulle proprie spalle» e «togliere via».
L’espressione evangelica che viene usata però in due versetti del primo capitolo di vangelo di Giovanni per l’esattezza dice: «ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!».
Fra l’altro, il quarto vangelo riserva al Battista una funzione molto particolare: dopo averne precisato nel prologo il ruolo totalmente differente rispetto al Cristo – egli è infatti solo colui che gli rende testimonianza, e non la luce (Gv 1,8.15) – il Battista fa conoscere al lettore che egli non è il Cristo, il Messia ma solo la «voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore». Quando Gesù arriva nel luogo in cui Giovanni sta battezzando, «a Betania al di là del Giordano», davanti a chi gli domanda «chi sei?», il Battista risponde: «io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». E «il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!”» (Gv 1,26-29). Giovanni invece aggiunge di essere «venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele» (Gv 1,21).
Quindi, «il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio!”. E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù» (Gv 1,35-37).
Il quarto Vangelo dà un significato nuovo alla prima espressione («l’agnello di Dio»), che originariamente nell’ebraismo ha a che fare con il racconto del sacrificio di Isacco: «Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto» (Gen 22,8), il cui sangue asperso sugli stipiti delle porte apriva alla liberazione dalla schiavitù (Es 12,7-13).
Isacco nel giudaismo, dopo l’agnello della Pasqua e il «servo» del Signore descritto da Isaia (Is 53,7.10), è il prototipo del sacrificio nel cui nome vengono cancellati i peccati del popolo. «noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (Is 53,6-7).
Per Gesù viene creata però l’associazione tra «agnello di Dio» e «Figlio di Dio»: «io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,34). Del resto, appena Gesù è morto e «uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34), l’evangelista aggiunge – e in questo caso è lui il testimone –: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo, infatti, avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».
Addirittura, la prima lettera di Giovanni rovescia in chiave battesimale la contemplazione del Cristo, morto sulla croce, rivelando la sua azione salvifica universale: «egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue» (1 Gv 5,6).
D’altronde, come scrive il Vangelo, «Dio … ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16-17).
È infatti, su questa tonalità universale che si sposta il pensiero del quarto evangelista, quando dice nella prima delle tre lettere: «figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1 Gv 2,1-2). E ancora, e soprattutto: «non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10).
La stessa prima lettera di Giovanni sposta ulteriormente questo orizzonte, quando aggiunge anche: «se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato. Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi» (1Gv 1,7-10).
Potremmo però chiederci perché le parole del Battista parlano letteralmente di «agnello di Dio che toglie il peccato», al singolare, mentre la liturgia «traduce»: «agnello di Dio che toglie i peccati», al plurale.
Qui il ragionamento si fa più sottile: il peccato, al singolare, diventa il padre (o la madre visto il genere della parola greca!) di tutti i peccati, al plurale, che pervadono la storia umana, nonostante che Gesù Cristo abbia preso su di sé, e portato via il peccato. Lo dice chiaramente ancora la prima lettera di Giovanni, quando spiega che cosa intende la parola peccato: «in questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo. (1 Gv 4,2-3). È ciò che viene chiamato in chiave ancora più assoluta, la distruzione di ogni ordine: «il peccato è l’iniquità» (1 Gv 3,4).
Chiave di tutto è negare il mistero dell’incarnazione: colui che è Dio da sempre («in principio»: Gv 1,1) «si è fatto carne», cioè uomo (Gv 1,14). Ha, cioè, assunto su di sé la debolezza umana, perché ha preso su sé la radice di tutti i peccati: la negazione del progetto stesso di Dio. Per usare le parole di un celebre commentatore: l’intero «peso dei peccati dell’umanità».
Perciò, nessuna meraviglia se, nonostante la salvezza che viene da Gesù Cristo, la fragilità della nostra condizione continua a mostrarsi nella storia di tutti e di ciascuno.