Un risveglio dal «coma irreversibile» che mette in dubbio il «fine vita»

Gentile direttore, sono la presidente dell’Oami, un’associazione Onlus che gestisce Case famiglia per anziani e disabili, in questo momento in cui la politica ha affrontato il tema del fine vita e i giornali e i telegiornali vi hanno dato eco, vorrei raccontare, come punto di riflessione per tutti, quello che è accaduto ad uno dei ragazzi ospiti di una nostra Casa famiglia di Firenze.

R. 60 anni, un qualcosa in più rispetto a noi: un cromosoma, questo lo definisce come Down, ad alcuni può bastare, ma R. è molto di più. R. è un uomo allegro, attivo, con una sorella e diversi amici, ha una sua vita in Casa famiglia ed anche fuori si fa voler bene per la sua tenerezza e la sua allegria.

Lunedi 11 dicembre, mentre faceva merenda al centro diurno, che regolarmente frequenta, un boccone gli è andato di traverso facendolo soffocare, gli operatori sono stati bravissimi nel fare le manovre necessarie, ma lui è diventato comunque cianotico ed ha perso conoscenza. Trasportato d’urgenza all’ospedale di Ponte a Niccheri la diagnosi comunicata dai medici è stata infausta: coma irreversibile, di fronte a questo verdetto anche la sua tutrice ha firmato tutti i fogli necessari ad evitare qualunque forma di accanimento terapeutico, e così R. è rimasto semplicemente attaccato ad un respiratore. Coma irreversibile, dovrebbe esser una condizione da cui non si può tornare indietro a meno che non succedano due cose, la prima: un miracolo, a cui non abbiamo difficoltà a credere perché profondamente convinti che Dio può fare anche questo, la seconda: un errore di valutazione, dal quale però possono scaturire anche scelte da parte di chi, fidandosi della diagnosi medica, deve prendere decisioni sulla vita di un altro.

Il 12 dicembre più o meno all’ora di pranzo R. si è svegliato, ha riconosciuto la responsabile della struttura, ha pianto. Due giorni dopo si muoveva, parlava e voleva andare via dall’ospedale. Gli esami fatti successivamente al risveglio dicono che non ci sono danni conseguenti all’asfissia.

Naturalmente siamo tutti felici di questo esito, ma resta in noi il dubbio: è stato davvero un miracolo o la superficialità di una diagnosi rassegnata di fronte ad un Down di 60 anni? Non sappiamo come siano andate le cose, ma questo dubbio lo vorremmo insinuare anche ai politici, a chi dibatte sul tema del fine vita, perché quello che in questa storia ci spaventa un po’ è il rischio che le situazioni di fronte alle quali è più facile dire «tanto lui….», (pensiamo al disabile, all’anziano), vengano affrontate con un po’ meno coscienza e che quindi possa diventare accanimento ciò che invece non è.

Anna Maria Maggi

Non possiamo che gioire con lei, cara Anna Maria. E attraverso di lei con tutti gli ospiti della Casa famiglia, gli amici e la sorella di R. È davvero una bella storia quella che ci racconta. Sarebbe stato interesante poterla raccontare anche ai tanti senatori che senza un «supplemento di saggezza» (di fatto anche senza un dibattito degno di questo nome) hanno approvato la legge sul biotestamento. In effetti quel «tanto lui…» preoccupa. Al pari dell’espressione molto ricorrente «ha smesso di soffrire».

Qualche giorno fa l’editorialista di un quotidiano si chiedeva se dietro quest’affermazione si nasconda un «abbiamo smesso di soffrire», per dire che a volte l’assistenza e la cura dei malati o degli anziani, se non è fatta con amore, può diventare un peso. È su questo fronte che sarebbe stato indispensabile ragionare, pensare a cosa si può fare per aiutare a vivere in modo dignitoso anche chi è malato o anziano, anziché pensare a come aiutarlo a morire. In questo senso, se possiamo condividere la condanna dell’accaninimento terapeutico, non possiamo ad esempio accettare di considerare idratazione e nutrizione come terapie che possono essere interrotte. Basterebbe pensare all’atrocità di morire per sete. Comunque, per una analisi più precisa del testo della legge rimando agli approfondimenti già pubblicati. Ma in questa legge, come ha scritto Giuseppe Savagnone, il problema non è solo il «detto», c’è anche il «non detto», che in qualche modo sancisce il passaggio dall’idea della sacralità dell’essere umano al soggettivo volere dell’individuo.

Andrea Fagioli