Troppo inglese, anche sul «nostro» giornale
Caro direttore, la scorsa settimana la giornalista che stava presentando il telegiornale (Rai) ha detto che il Presidente del Consiglio aveva parlato di Rai Way, della governance della Rai e per finire del Jobs act (mi scuso se non ho scritto correttamente, ma non conosco l’inglese). Sinceramente mi è parso «leggermente» strano: sembrava di essere in un paese anglosassone.
L’italiano è una bellissima lingua e credo che contenga abbastanza vocaboli per poter definire qualsiasi cosa. Purtroppo anche il «nostro» (mi permetta) giornale utilizza vocaboli stranieri; non è possibile che per leggere un articolo bisogni utilizzare un vocabolario.
Nel numero 9 in prima pagina Folena parla di gender, a pagina 5 si scrive di pocket money, a pagina 9 le meditazioni del cardinale sono in streaming. Nel notiziario della diocesi di Firenze si riporta, ancora, lo streaming, a pagina 4 arriva fundraising, flash mob, art be with you. Forse io sono ormai vecchio, ma vorrei poter leggere direttamente in italiano.
Vincenzo Benvenuti
Carissimo Benvenuti, parto con un primo ringraziamento per essersi «permesso» (si «permetta» eccome!) di scrivere quel «nostro» a proposito del giornale. Che i lettori considerino «Toscana Oggi» come «loro» è la miglior cosa che ci possiamo augurare.
Ma la ringrazio anche (e glielo dico con un vecchio modo di dire tutto italiano) per averci «preso in castagna», perché ha ragione lei, l’italiano è una bellissima lingua e contiene vocaboli a sufficienza per definire qualsiasi cosa. Quindi sbagliamo quando, magari per pigrizia, non cerchiamo il corrispettivo in italiano per rendere i nostri articoli comprensibili a tutti.
Proprio nei giorni scorsi riflettevo sull’uso dell’inglese in tv a proposito di certi programmi come i cosiddetti «talent show», o più semplicemente «talent» e basta, presenti un po’ su tutte le nostre reti. Porgrammi che si basano sugli stessi «format» e, appunto, sull’uso dell’inglese non solo per definirne le caratteristiche, ma anche per i titoli. Chi ha provato a non usarlo ha fallito («Forte forte forte», tanto per non fare titoli). Forse reggerebbe «Fattore X» al posto di «X Factor». Ma della «Voce d’Italia» al posto di «The Voice of Italy» non se ne parla. Qualcuno potrebbe pensare all’inno nazionale cantato o, i più anziani, a Claudio Villa. Su Sky, a scanso equivoci, dopo «Masterchef» è partito «Italia’s Got Talent». Insomma, canale che vai, «talent» che trovi. E guai all’italiano. In trasmissione si parla di «coach», di «blind audition», di «team»….
Anch’io, confesso, non sopporto il troppo inglese. Sarà perché non sono mai riuscito a impararlo, ma mi sembra pure una lingua brutta. Niente a che vedere con noi e con la nostra di lingue, con «Le genti del bel paese là dove ’l sì suona», come scrive Dante riferendosi agli italiani e alla lingua come primo nucleo di un’identità comune. Però (i però ci sono sempre, caro Benvenuti) dobbiamo tener conto di alcune cose. Innanzitutto che ci sono parole che avrebbe poco senso tradurre, anche perché si riferiscono a questioni internazionali e l’inglese, purtroppo per noi, è diventata la vera lingua internazionale. Penso ad esempio a «pocket money», che lei rammenta e che nel giornale era opportunamente preceduto da un «cosiddetto». In ogni caso, tradotto diventerebbe «paghetta». Non mi sembra granché a proposito dell’ammontare del contributo riservato a ogni profugo ospitato nei nostri centri di accoglienza.
Ci sono anche casi in cui non si deve tradurre perché si parla di qualcosa di locale. Ad esempio, non si deve tradurre «Art be with you», perché si tratta di una campagna di comunicazione nata a New York. Altrimenti sarebbe un po’ come parlare del nostro giornale in America chiamandolo «Tuscany Today». Infine, come accennavo, l’inglese è la lingua internazionale (basterebbe pensare alla tecnologia, che fa sempre più parte della nostra vita) e in un mondo globalizzato siamo tutti cittadini del mondo, soprattutto i giovani, bisognosi di una lingua comune. Sarebbe stato bello fosse toccato all’italiano. Invece, è toccato all’inglese.
Andrea Fagioli