Caro Direttore,su TOSCANAoggi del 3 marzo scorso leggiamo la presentazione del «Cineforum giovanile allo Stensen», organizzato da giovani volontari appassionati di cinema e desiderosi, tra l’altro, di ridare vita allo «storico cineforum» e di far conoscere al pubblico i film che essi hanno giudicato essere i più belli degli ultimi tre anni. Attratti dall’iniziativa ma memori al tempo stesso di una «storica» passata esperienza di «cineforum» che tanti anni fa negli stessi locali aveva dato, purtroppo, esiti molto negativi, siamo andati a vedere il film belga del 1992 intitolato «Meno morta degli altri». Il film inizia con lo scenario, ripetuto ad intervalli, di un interminabile fila di persone che si recano all’obitorio per rendere omaggio alla salma di un morto e termina con la eutanasia, da lungo tempo programmata dalla protagonista principale, il cui suicidio sembra doversi interpretare come un dono di vita a quei vivi apparenti che in sostanza sono già morti.Tra gli spettatori e spettatrici, appartenenti in buona parte al mondo della cultura e probabilmente alla categoria degli insegnanti, qualcuno si è detto entusiasta del film; ma, quel che è peggio, è circolata tra gli stessi una mentalità relativistica tendente a valorizzare, di fronte alle grandi tragedie della vita, una cosidetta autonomia individuale come incensurabile libertà di ogni tipo di scelta. Tra l’altro è stato detto che anche l’ecumenismo rende molto perplessi (forse perché interpretato come tendenza unificatrice di orientamenti religiosi diversi). E, anche con riguardo all’aborto, è stato osservato che, invece di ricorrere a normative, si dovrebbero rispettare le singole autonomie individuali.Lo stesso film, del resto, oltre ad ignorare qualsiasi problematica sul fondamentale e universale valore della vita umana, contiene implicite critiche alla religione, come quando accenna all’ammalato che rifiuta l’estrema unzione ed al sacerdote che intende amministrargliela ad ogni costo.In conclusione a noi sembra che una istituzione che si intitola al nome di un famoso vescovo danese ordinato sacerdote dopo sua conversione al cattolicesimo Niels Stensen non possa limitarsi ad usare i media per presentare attori e registi o per fare storia del cinema, illustrare particolari tecniche, far rivivere e commentare famose vicende storiche, ignorando il messaggio universale del cristianesimo o, peggio ancora, contrastandone il senso e gli orientamenti.Elvira Petroncelli e Giancarlo DupuisFirenzeRisponde P. Ennio Brovedani sj, Direttore dell’Istituto «Niels Stensen» di Firenze.«Meno morta degli altri» è il penultimo di una serie di film a soggetto biomedico proposta all’ambiente medico e infermieristico dall’Associazione di Bioetica e Antropologia Medica di Firenze (BEAM), con il patrocinio dell’Ordine dei Medici, e organizzata in collaborazione con la nuova e giovane équipe dello StensenCineforum. Contrariamente a quanto sostengono i due spettatori, la maggioranza delle persone presenti in sala erano medici e infermieri.Il film in questione, non è un film sulla morte, che resta pur sempre un enigma per la ragione pensante ma sul «morire» e su tutti i problemi connessi con la gestione di questo angoscioso momento che, a seconda delle situazioni, può essere sereno, estremamente sofferente, oppure caratterizzato da atroce agonia. Con realismo documentaristico e quasi protocollare ben 30 persone sono uscite di sala prima della conclusione del primo tempo il film racconta la storia e la drammatica sofferenza fisica e psicologica di tre morti nell’ambito di uno stesso nucleo famigliare: una morte violenta e atroce e due tormentate morti per malattia, la prima «naturale», la seconda «assistita». Non è un gioco di parole, o come potrebbero pensare i due spettatori, un «cedimento» al relativismo, ma la sottolineatura di quanto sia dilemmatica e moralmente discutibile non solo la possibilità dell’eutanasia attiva evocata nel terzo episodio, ma lo stesso «lasciar morire», in un contesto in cui la ragione umana da sola non riesce a reperire alcun senso.Non si comprende per quale ragione la trasposizione filmica di una complessa e lacerante problematica implichi l’avallo o l’immediata legittimazione delle possibili e prospettate scelte. L’invocata universalità del messaggio cristiano significa forse negazione di ricerca, approfondimento e rispettoso confronto? Infine, è vero che nel film traspare una mal celata critica alla religione. Si allude però all’invadenza clericale, mentre la protagonista principale elogia l’umanità e la comprensione del sacerdote.A conclusione del film è seguito un dibattito pacato e sereno, condotto da un medico, che non rispecchia affatto l’unilaterale e negativa impressione espressa dai due spettatori che, tra l’altro, non esitano a stigmatizzare presente e passato dello Stensen. Lo spessore del tema in questione è tale da non consentire un approccio caratterizzato da intransigenza ideologica così estranea allo spirito evangelico e da semplificazioni dettate da nostalgici e improponibili primati, come quello della fede sulla ragione o, viceversa, della ragione sulla fede. Fondamentalismo e relativismo sono due forme di «riduzionismo» ideologico che conducono in un vicolo cieco, quello dell’arrogante sufficienza e del disprezzo della dignità culturale altrui. La prudenza nelle valutazioni e nei giudizi non è solo parte della formazione del credente e dei suoi comportamenti, ma è anche una necessità di fronte alla complessità della realtà contemporanea. Che pensare, allora, di un S. Tommaso che pone l’anima razionale a fondamento della dignità umana, o di S. Pietro che esorta (1 Pt. 3, 15-16) a «rendere conto della speranza che è in noi, a coloro che ne chiedono ragione», ma con carità e rispetto? Forse un po’ di umiltà non guasta.