Sofri, Tuti e l’equazione delitto-castigo

Caro Direttore,da un giornale di base religiosa gradirei apprendere quanto mi è utile e non leggere recensioni più o meno laiche, come l’editoriale pubblicato sul numero 13 del 28 marzo scorso («Per Tuti e Sofri è un errore l’equazione delitto-castigo»). Nel rispetto sempre dovuto verso le vittime, allorché si parla di comuni assassini, vorrei esprimere un mio parere.

«L’equazione delitto-castigo è vera giustizia». È noto che la vita terrena di ogni uomo è regolata da due leggi, molto diverse tra loro sia per imposizione che osservanza e sia per le pene derivanti in caso di trasgressione. Entrambe, comunque, nel bene e nel male, tendono a tutelare chi le osserva ma anche a punire chi le trasgredisce, ed è più che giusto che la pena ripiani il male arrecato, in modo che non ci sia divario, ossia ingiustizia: sono la legge degli uomini e quella divina.

Il nostro Credo impone la netta separazione fra le due leggi: una riguarda la parte materiale di noi e l’altra la parte religiosa del nostro io (ovviamente per chi crede): «quod Caesaris Caesari, quod Dei Deo».Perché su un giornale religioso si devono leggere solo arzigogoli su tre assassini della peggior specie, che hanno ammazzato per pura ideologia, contraria alla loro? E se si aggiungesse che uno Stato che non è in grado di rispettare l’equazione farebbe meglio ad… appaltare la giustizia a chi lo è? A meno che non si diventi tutti atei, come prevedibile dalla Costituzione europea…Alberto PonzecchiFirenze Nell’editoriale con cui lei, caro Ponzecchi, non è d’accordo (Toscanaoggi, n. 13 del 28 marzo scorso) il magistrato Giuseppe Anzani, partendo da quattro recenti casi, diversi, ma accumunati «dal filo di uno stupore o di uno scalpore»: la semi-libertà a Tuti, l’eventuale grazia a Sofri, un atto di clemenza per Priebke e la richiesta di estradizione per Battisti, fa considerazioni, a mio parere, molto giuste.Questi casi, che coinvolgono persone riconosciute colpevoli e condannate, meritano comunque una riflessione ulteriore sul rapporto colpa-pena e soprattutto sul fine che la pena stessa riveste. La pena non può essere solo afflittiva: è – deve essere – un mezzo per ritornare in sé, per riconoscere il male compiuto, per pentirsi della sofferenza causata. Per questo è giusto chiedersi – dopo un determinato periodo di detenzione – se nel condannato è avvenuto un cambiamento, se nel tempo è divenuto migliore. In questo caso la giustizia deve avere – e di fatto ce l’ha – la possibilità di addivenire a pene alternative o addirittura ad atti di clemenza che derivano dalla presa d’atto che ora ci troviamo di fronte a un’altra persona. E questo vale per tutti i carcerati, noti o ignoti che siano.Il riferimento che lei fa alla legge di Dio – al «non uccidere» – è opportuno, ma l’idea di redenzione, come possibilità reale di cambiar vita, percorre tutto il Vangelo ed è di grande consolazione per ognuno di noi.Tutto questo deve essere sempre accompagnato dalla pietà per le vittime e dal rispetto del dolore dei familiari, ma è importante ribadire che nessuno può rimanere inchiodato per sempre al proprio passato.

Per Tuti e Sofri è un errore l’equazione delitto-castigo