Siamo tutti un po’ «ideologici»

Caro Direttore,scrivo in merito all’articolo di Stefano Fontana «Poche idee concrete e troppa ideologia» (TOSCANAoggi, n. 31). Non voglio parlare tanto del vertice Onu, quanto dell’uso del termine «ideologia», visto che anch’io, di recente, sono stato «accusato» di aver fatto un’analisi ideologica della situazione internazionale.

Ogni nostra presa di posizione, anche nell’«analisi dei fatti e nelle proposte concrete», è, in senso largo, frutto della nostra «ideologia»; e spesso chi accusa gli altri di guardare i fatti attraverso un filtro ideologico è il primo ad avere una visione ideologica della realtà (ovviamente di matrice diversa). Questo è molto evidente nell’articolo, da cui traspare la difficoltà a distinguere l’ideologia in senso stretto, e negativo, di «ingabbiamento» delle idee in uno schema rigido (con l’inevitabile difficoltà a capire quelle diverse), dai necessari pensieri e principi con cui ognuno valuta la realtà.

L’affermazione che sostituire le culture da esportazione con quelle per alimentare direttamente la popolazione locale non farà mai superare il livello di sussistenza è, ad esempio, un assunto ideologico, con tanti presupposti aprioristici: che il vero progresso dell’uomo è legato al benessere materiale e non alla limitazione dei bisogni e alla libertà di fronte alle cose; che è più saggio far girare mezzo mondo a ciò che può essere prodotto localmente; che il grande Mercato, con i suoi limiti, è l’unico che può portare il benessere a tutti, ecc.

Allo stesso modo è ideologico sostenere la falsità dell’affermazione che il nostro sviluppo non è esportabile. A parte che traspare in modo chiaro una certa ignoranza sulle varie risorse necessaria al nostro stile di vita e sulle devastazioni ambientali, sociali e culturali ad esso collegate (e chi parla è spesso ideologicamente accusato di disfattismo) è dato per scontato che sia bene esportare in tutto il mondo un modo di vivere artificiale, basato su una tecnologia che è tecnica ridotta a ideologia e su una scienza che è una visione ideologica nella realtà con pretesa di assolutezza.

Dire che bisogna far parlare i fatti e non le ideologie va bene se inteso come invito all’impegno e non solo alle chiacchiere e ai propri interessi, ma è evidente che i fatti vengono giudicati in base al proprio pensiero sul bene dell’uomo, sulla sua dignità, sul suo valore, ecc. e da questo pensiero dipendono anche i fatti da proporre per cambiare le cose. Discorso simile vale per gli «esperti», inevitabilmente condizionati dal loro angolo di visuale, quando non, purtroppo, dai loro interessi.don Marco BellesiSiena Il termine «ideologia», coniato alla fine del Settecento, dal francese Destutt de Tracy per indicare lo studio dell’origine delle idee, prese subito una accezione spregevole grazie a Napoleone il quale, infastidito per le critiche mosse alla sua politica «imperialista» dagli intellettuali vicini al de Tracy, li tacciò di essere solo «degli ideologi», cioè degli intellettuali astratti. L’accezione negativa si è poi consolidata con Marx ed Engels, che usarono il termine per indicare una rappresentazione della realtà distorta dalla collocazione di classe e dagli interessi del soggetto che la produce. Oggi lo si usa (pensi al «crollo delle ideologie») per indicare un sistema chiuso e totalizzante di interpretazione della realtà.Ma quello che lei chiama «ideologia» mi sembra sia qualcosa di diverso. Lo si potrebbe definire piuttosto con il termine tedesco di Weltanschauung (visione del mondo). Se lo intendiamo così, allora è vero che ogni persona ha una propria Weltanschauung (magari anche confusa e contraddittoria) che sta alla base dei propri giudizi e delle proprie scelte, ma è cosa ben diversa dall’«ideologia» di cui sopra. Quello che voleva dire Fontana è che a Johannesburg i politici hanno fatto la loro bella parata, hanno infarcito i discorsi di promesse e di «grandi analisi», ma poi in concreto non hanno preso quelle decisioni che erano necessarie per cambiare marcia.