Pluralismo nell’informazione: un valore costituzionale
Qualcosa sta cambiando nel Paese se il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nell’ultimo mese ha sentito la necessità di ribadire più volte che l’informazione è un bene pubblico di rilevanza costituzionale. E che la libertà di stampa e la tutela delle minoranze richiedono il sostegno dello Stato. In un tempo in cui pare che tutto debba essere ricondotto alla legge di mercato, il valore del pluralismo nell’informazione torna ad essere al centro del dibattito. Qui ci interessa in particolare quello che dà voce ai territori, alle comunità, alle periferie, alle realtà decentrate.
Sono i giornali di carta e sul web che raccontano una comunità, un’area ben definita del nostro Paese. Molte delle notizie che diffondono non arrivano mai alla ribalta nazionale. Sono i giornali diocesani che, come ha sottolineato papa Francesco, sono «voce, libera e responsabile, fondamentale per la crescita di qualunque società che voglia dirsi democratica, perché sia assicurato il continuo scambio delle idee e un proficuo dibattito basato su dati reali e correttamente riportati». Hanno una tiratura legata al territorio e svolgono una funzione indispensabile e preziosa nella crescita democratica della Nazione e consentono di essere consapevoli del tempo che si sta vivendo. Ancor più nell’attuale contesto comunicativo che avvolge tutti con sempre nuovi strumenti, veloci e persuasivi.
Da quest’anno, dopo un lungo ed articolato lavoro a livello parlamentare e dei protagonisti dell’informazione tra cui anche la Fisc (Federazione italiana dei settimanali cattolici), è in vigore la riforma del comparto editoria, che con regole chiare, trasparenti ed eque, sostiene l’informazione locale (carta e web) legata al no-profit e alle cooperative dei giornalisti.
La notizia di questi giorni è che in Parlamento sarà discusso un emendamento alla legge di Bilancio, su proposta di una porzione della maggioranza al Governo, che rimette in discussione tutto questo, liquidando un tema vitale per il Paese. Tutto si può ridiscutere e migliorare, ma, per un comparto così significativo, delicato e complesso come la libertà di stampa e il pluralismo informativo, occorre un ascolto più ampio con coloro che sono coinvolti. Evitando dogmatismi pregiudiziali, e guardando alla realtà delle cose ed al contesto democratico.
Un cambio repentino della legge metterebbe a rischio anche i posti di lavoro di migliaia di giornalisti che sono radicati sul territorio. E non è immaginabile un Paese impoverito di queste voci, sarebbe privato di apporti fondamentali al dibattito sociale e civile. Verrebbe meno un’informazione credibile sempre sul campo al di là delle tante, troppe, fake news che proliferano.
Confidiamo, quindi che non si proceda al cambiamento attraverso la legge di Bilancio, ma che si apra un confronto costruttivo e aperto per continuare a sostenere il pluralismo.
I direttori delle testate aderenti alla Fisc (Federazione italiana dei settimanali cattolici)
All’apparenza, questa settimana, rubiamo spazio al tradizionale dialogo con i lettori. In realtà non è così, perché la questione che affrontiamo riguarda direttamente anche voi, cari amici lettori. Un giornale senza lettori non esiste. Eppure, a volte non bastano nemmeno i lettori per tenerlo in piedi. Spesso sono necessari aiuti, che non sono elemosina, ma sostegni a garanzia del pluralismo dell’informazione. Si chiamano contributi pubblici all’editoria e aiutano la vita di testate come questa. È vero che in passato ci sono stati sperperi e qualcuno se n’è approfittato. Ma dal 15 maggio 2017 è entrata in vigore, dopo tre anni di lavoro, una buona legge, la n.70, che ha fatto chiarezza su chi prende i contributi pubblici, ovvero cooperative giornalistiche, enti senza fini di lucro, quotidiani e periodici delle minoranze linguistiche, per non vedenti o ipovedenti, giornali diffusi all’estero, alcuni quotidiani tra cui «Avvenire» e i settimanali cattolici. Non ci sono più i giornali di partito, mentre i cosiddetti grandi quotidiani e periodici non ci sono mai stati. L’ammontare del contributo dipende dal numero di copie realmente vendute e dal numero di giornalisti assunti. Tutta l’operazione vale poco più di 50 milioni, ovvero una briciola nel bilancio di uno Stato. Eppure, da quella briciola dipendono la sopravvivenza di tanti giornali, soprattutto locali, che garantiscono quel pluralismo dell’informazione di cui si diceva, oltre al lavoro di tante persone all’interno dei giornali stessi e nell’indotto (tipografie, distributori, edicole, collaboratori, ecc.).
In questi giorni, un emendamento presentato in Commissione bilancio da un deputato del M5S, Adriano Varrica, vuole abolire tutto questo abolendo una legge che deve ancora dare i primi benefici, essendo entrata in vigore dal 1° gennaio 2018. Da qui l’appello pubblicato in questa pagina sottoscritto da tutti i direttori dei settimanali cattolici con l’auspicio che l’emendamento venga bocciato. Il caso vuole che questo frangente negativo coincida con un momento particolarmente significativo per la nostra stampa cattolica: i cinquant’anni di «Avvenire», il 4 dicembre, e i 35 anni di «Toscana Oggi», il 18 dicembre. Una bella occasione per ribadire l’importanza del quotidiano cattolico nazionale e del settimanale cattolico regionale con le sue 15 edizioni corrispondenti ad altrettante diocesi. Due realtà complementari, che si integrano a vicenda, come scrive Antonio Lovascio alla luce del suo incarico di direttore dell’Ufficio delle comunicazioni sociali della diocesi di Firenze, ma soprattutto della sua esperienza e della sua prestigiosa carriera partita proprio da «Avvenire» e conclusasi con la vicedirezione de «La Nazione».
Andrea Fagioli