L’Europa e la Turchia

Caro Direttore,nel 1950 padre Chenu in un articolo intitolato Chrétienté ou mission? prospettava due grandezze inversamente proporzionali: il cristianesimo profetico, la cui preoccupazione è di servire gli ultimi, e il cristianesimo-cristianità, che, intento a difendere un modello di «civiltà», mira principalmente all’autoconservazione. Stabiliva così una netta divisione: da una parte una Chiesa missionaria, fedele allo spirito evangelico, aperta all’incontro con le culture non cristiane, costantemente critica nei confronti della città terrena e nei propri confronti; dall’altra una Chiesa che si considera unica depositaria della verità, e si riserva la prerogativa di offrire il fondamento delle leggi dello stato e dei comportamenti della società.

Nelle sue osservazioni dello scorso numero e nelle lettere di Leonardo Rosselli e di Mario Bardazzi possiamo individuare due obiettivi polemici tipici del secondo modello di Chiesa qui accennato: la laicità e il pluralismo religioso, da voi chiamato «sincretismo» e «relativismo». Lei arriva ad affermare una cosa che ritengo molto grave: che la Turchia non può entrare nell’UE perché non è un paese di cultura cristiana. Se avesse tirato in ballo la pena di morte, le condizioni carcerarie, la discriminazione verso il popolo curdo, avrei condiviso i suoi dubbi. Ma per lei il criterio è diverso: è la religione, intesa soprattutto come insieme di credenze, di tradizioni, di teorie e di istituzioni.

In primo luogo, lei riduce la fede a religione, e la religione a cultura. Ci spieghi dunque che cos’è questa cultura cristiana da lei difesa, e come si differenzi da quella islamica.

In secondo luogo le ricordo che le istituzioni comunitarie si basano su un pluralismo di culture, e non sul monopolio di una di esse, e che l’UE si avvia ad essere una comunità di diritti, tra i quali vi è il principio di libertà religiosa attiva: non solo cioè l’UE garantisce la professione di tutti i culti, ma li considera alla stessa stregua, offrendo loro medesime opportunità di espressione, nell’autonomia reciproca e nel rispetto dei diritti umani concordati a livello internazionale.

Caro Direttore, deve allora chiarire una volta per tutte ai lettori di Toscanaoggi se per lei la non confessionalità dello stato significa relativismo etico e se come tale essa è un pericolo per il cattolicesimo contemporaneo. La mia impressione è che riconoscere in una carta costituzionale vaghe «radici comuni cristiane» serva soltanto come alibi per osservare scritto nelle leggi ciò che non riusciamo a imprimere nel nostro cuore. Il vero pericolo per il cristianesimo viene dal suo interno: da chi riduce il vangelo a cultura, civiltà, religione civile e non si preoccupa di metterlo in pratica nella propria vita.Matteo CaponiPrato Credo che il suo disappunto nasca da una cattiva interpretazione del testo (anche se ammetto che un inciso del genere può risultare poco chiaro). Intanto, per essere precisi, io non ho detto «che la Turchia non può entrare nell’Ue», ma che «trovo ragionevole avere delle perplessità». E la differenza non è di poco conto, perché le perplessità si possono anche superare con argomenti convincenti. Non penso affatto che l’Ue debba essere uno stato confessionale cristiano: Dio ce ne scampi e liberi! Ma il vero problema è capire cosa è l’Ue. Se è semplicemente un «club di libero scambio», allora la Turchia va benissimo e già che ci siamo più paesi entrano nell’Unione e meglio è. Se però l’Unione, come continuo a pensare, dovrebbe essere piuttosto una realtà coesa di popoli che con comuni radici superano la frantumazione statuale per dar vita ad una federazione che si riconosce in determinati valori, allora i dubbi sono più che leciti. Perché la Turchia, appunto, almeno nell’ultimo millennio, ha avuto una storia a sé, non comune a quella dell’Italia o della Francia, o anche della Russia.Dubbi che pochi giorni fa sono stati sollevati autorevolmente dal presidente della Convenzione europea Valery Giscard d’Estaing, che credo non possa essere ascritto a quei cristiani che mirano all’autoconservazione di una civiltà cristiana che non c’è più. In un’intervista a «Le Monde» che ha fatto molto scalpore (e che è stata criticata ad esempio da Romano Prodi) il presidente della Convenzione affermava che l’ingresso della Turchia «sarebbe la fine dell’Unione Europea», perché «non è un paese europeo» dato che «la sua capitale non è in Europa, il 95% della sua popolazione non è in Europa».