Le spinte autonomiste e la debolezza della nostra politica

Caro direttore, a urne chiuse mi permetto di dire che le autonomie regionali sono un palese affronto alla carità reciproca nelle cose pubbliche. L’Italia del 1861 è ancora divisa per mentalità, costumi, censo, occupazione e altro. Bisogna ricostruire la nazione e bisogna anzi demolire le regioni tutte che costano un occhio e che sono una palese ingiustizia sociale. Specie la sanità deve essere nazionale; non possiamo vedere formiche e sudiciume sui malati. L’unica regionalizzazione utile è quella di uscire dalla Unione europea che, giorno dopo giorno, massacra l’Italia mediante le fissazioni tedesche sul rigore contabile. Dopo il 2011 in cui fu creato il terrore dei conti pubblici mediante i servi dei nordici, non ci hanno neppure fatto votare. L’Italia può fare da sola. È sufficiente l’ombrello Nato; al resto pensiamo da soli risparmiando 20 miliardi l’anno per l’Europa e infiniti miliardi per mantenere le burocrazie di 20 regioni. L’Italia è una ed indivisibile.

Gian Carlo Politi

Pur rispettando le sue opinioni, caro Politi, credo di dissentire da quasi tutte ad eccezione del fatto che «l’Italia è una e indivisibile». Però mi fa piacere che il suo intervento offra la possibilità di riflettere sul recente referendum in Lombardia e Veneto e sulle spinte autonomiste, ma anche separatiste, che coinvolgono non solo l’Italia bensì l’intera Europa: dalla Gran Bretagna con la Brexit alla Catalogna. Situazioni diverse, ma in gran parte segnate dall’individualismo che ci sta caratterizzando a tutti i livelli, sia di singoli che di società. Anche se non possiamo sottovalutare i segnali che arrivano da certe consultazioni, al di là della innegabile battaglia politica che ci sta dietro.

Referendum consultivi di questo tipo, che non producono nessun effetto se non dispendio di denaro pubblico, dimostrano comunque che la gente non si fida più dello Stato centralista «perché lo trova scarsamente efficiente e incapace di fornire ai cittadini servizi all’altezza». Questo è almeno quello che sostiene Paolo Pombeni, uno dei più acuti storici e analisti della realtà politica italiana, che abbiamo intervistato per l’occasione (v. pagina 9 del settimanale n. 37 del 29 ottobre 2017). «Però – ammette Pombeni – è anche un segnale che contiene una dose di egoismo: siccome i tempi sono difficili ognuno vuole tenere per sé le proprie risorse». È la politica che «deve rispondere in maniera seria, riprendendo in mano il problema dell’ordinamento regionalistico nella Costituzione. È necessario aprire una grande fase di riflessione per riscrivere nuove regole. Un processo che sarà lungo, che dovrà prevedere delle tappe intermedie, ma che soprattutto richiederebbe una classe politica con il coraggio della visione di lungo periodo ed è quello che purtroppo ci manca». Questo è un altro grosso problema, ovvero la debolezza della nostra attuale classe dirigente, incapace di politiche di lungo respiro, ma anche incapace di portare avanti il mandato democraticamente ricevuto dagli elettori. Pur di non prendersi responsabilità, si ricorre alle consultazioni popolari, che spesso, però, riflettono umori istintivi e non razionali.

Per quanto riguarda invece la Catalogna, al di là del fatto che se esiste una Costituzione, a mio giudizio, va rispettata, segnalo ai lettori la riflessione dello spagnolo Javier Rubio, direttore di «Ciudad Nueva», che è pubblicata in questo caso sul nostro sito, e che sostanzialmente mette in evidenza come si stiano alzando dei muri che poi sarà difficile abbattere: «Per ora è una guerra di parole, ma già – spiega Rubio – sta conducendo i cittadini di qua e di là, indipendentisti e non, verso una inevitabile deriva: troppi messaggi antagonisti stanno alzando muri che per abbatterli, ci vorrà tanto tempo».

Ma oltre a quelli metaforici interni alla Spagna, ci sono muri di filo spinato che si stanno alzando in Europa per impedire l’immigrazione, per paura del diverso, ma anche per l’incapacità di condividere dei beni che nonostante la crisi abbiamo ancora in abbondanza. Muri che testimoniano il fallimento di un’idea d’Europa pensata dai grandi statisti del passato. Ma si stanno costruendo anche muri di ipocrisia come quelli, anche in questo caso metaforici, alzati dai politici italiani che per paura di perdere voti non approvano una legge di civiltà come quella dello «ius soli».