La verità sul caso del giovane caduto dal grattacielo di Livorno

Gent.mo direttore, ho apprezzato la sua risposta alla lettera di Mario Lorenzini sulla morte dell’adolescente livornese avvenuta il 6 marzo scorso e la sua ipotetica connessione con il cosiddetto «Blue whale», perché mi è sembrata particolarmente equilibrata con una valutazione sul servizio delle «Iene» assai condivisibile. Essendo io il parroco della parrocchia dove abita la famiglia del ragazzo e conoscendo le persone e le situazioni, credo di dover fare alcune precisazioni che aiutino a comprendere il vero svolgimento dei fatti.

Il servizio delle «Iene» è stato totalmente scorretto nel modo di presentare il caso di Livorno per due motivi: primo perché lo ha inserito all’interno di interviste riguardanti casi di suicidio indotto avvenuti in Russia, e con ciò avallando l’ipotesi che anche quello di Livorno si iscrivesse nello stesso quadro; secondo – e questo è ancora più grave – tutta l’indagine si è conclusa con un’unica intervista totalmente inattendibile perché, a quanto mi risulta, il ragazzo intervistato è lo stesso che in un testo pubblicato dal «Tirreno» il 9 marzo scorso diceva cose del tutto diverse. Non sono stati sentiti i genitori, non coloro che hanno indagato sul caso, nessuno che potesse fornire qualche elemento serio. Domando: come si fa ad appurare la verità in questo modo? Tutto poi è stato amplificato in modo ancor più negativo sulla Nazione il martedì 16 maggio, successivo alla messa in onda del servizio. Domando ancora: è questo il modo con cui i giornalisti vanno alla ricerca della verità? O non vanno piuttosto alla ricerca del sensazionalismo che garantisce successo? Per concludere: ogni connessione tra la morte del ragazzo di Livorno e questo cosiddetto gioco è totalmente infondata.

Come spiegare allora questa morte? Messa da parte anche l’ipotesi del suicidio, perché non c’è un solo elemento che porti in quella direzione, nasce un’altra spiegazione che si iscrive in un fenomeno oggi in rapida diffusione tra gli adolescenti ed i giovanissimi: le foto in situazioni estreme (i cosiddetti «selfie»). Il ragazzo è salito in cima al «grattacielo», forzando la porta, per farsi qualche foto da mostrare agli amici e, andando alla ricerca di una posizione più ardita (probabilmente salendo sul muretto di recinzione), ha perso l’equilibrio ed è caduto. A Livorno si è verificato una morte causata dallo stesso motivo nella notte tra il 24 ed il 25 aprile: un giovane di 18 anni, Giordano Cerro di Roma, è salito su di un locomotore fermo per farsi una foto ed inavvertitamente ha toccato il cavo elettrico rimanendo fulminato. Si può riflettere molto su questi episodi da ogni punto di vista, psicologico, sociale, spirituale, ma non è il mio intento in questo momento. Voglio solo dire che anche nel caso del ragazzo di Livorno, che conoscevo, un ragazzo serio e bravo, il fascino del «vedersi» era evidentemente forte: tutto poteva finire con una foto ed invece è finito con la morte.

Il dolore che nasce da questa morte è grandissimo, soprattutto nei genitori: esso risulta drammaticamente accentuato da tutto il «discorrere» inutile e dannoso intorno al caso, non certo alla ricerca della verità e di ciò che aiuta a vincere il dolore.

Pier Giorgio PaoliniParrocchia Nostra Signora del Rosario – Livorno

Grazie davvero, carissimo don Pier Giorgio. La sua lettera è illuminante. Smaschera quanto di approssimativo e inattendibile c’era nell’inchiesta delle «Iene», oltre che di deontologicamente scorretto. Ma soprattutto ribadisce che sul dolore non si può speculare. Come dice lei, lo voglio ripetere: «Il dolore che nasce da questa morte è grandissimo, soprattutto nei genitori: esso risulta drammaticamente accentuato da tutto il “discorrere” inutile e dannoso intorno al caso, non certo alla ricerca della verità e di ciò che aiuta a vincere il dolore». E la verità, a cui giustamente si appella, ci impone di riflettere comunque anche sul fenomeno dei «selfie estremi», sicuramente più diffuso di quanto si pensi, segno dell’insoddisfazione che attanaglia ragazzi che sembravano avere tutto mentre hanno bisogno delle «bravate» e dei social network per sentirsi qualcuno. C’è quindi bisogno di vicinanza nei loro confronti, ma anche di educazione, come scrive lo psicologo Simone Provenzano al quale abbiamo chiesto un’ulteriore riflessione (leggi qui) sul fenomeno «Blue whale», che vero o falso che sia è comunque ben conosciuto da giovani e giovanissmi.

Andrea Fagioli