La questione demografica e il futuro lavorativo dei giovani

Gentile direttore, chiedo un suo parere sulla questione demografica in Italia. Se ne parla pochino, e quasi sempre per sottolineare la crescita zero (o proprio il calo) e lo sbilanciamento sulle pensioni. Tutto vero, ma manca mi sembra una analisi più approfondita. Mentre ci sbilanciamo in previsioni più o meno sballate sul futuro trascuriamo l’unica scienza che «sa» già quanti ventenni ci saranno tra quindici anni, e così via. Cosa che potrebbe aiutarci a programmare meglio tanti aspetti del nostro vivere comune. Ad esempio la scuola. Ci sono enti locali che si preoccupano di prevedere l’evoluzione degli ambienti necessari ai nostri studenti in relazione ai mutamenti previsti e prevedibili? O politiche del personale da parte del Miiur? O la sanità? O gli insediamenti abitativi? Infine una domanda inoltre cui non ho trovato risposta da nessuna parte. Premesso che la forte denatalità italiana ci creerà un sacco di problemi, che influenza ha adesso sul mercato del lavoro? Che cosa sarebbe successo se avessimo avuto ritmi da anni ‘60 anche nei decenni successivi riguardo al numero dei Neet o comunque dei disoccupati. Se vanno in pensione (detratto l’effetto Fornero) le classi anziane più numerose, com’è che non si creano posti in numero sufficienti per le classi giovani?

Vincenzo PanciniArezzo

Caro Vincenzo, la ringrazio della fiducia che ripone nelle mie conoscenze, ma alle sue domande posso rispondere soltanto con l’aiuto di alcuni esperti, collaboratori del giornale, ai quali ho chiesto aiuto. Loro mi dicono che i dati di cui lei parla (e di come la scuola li tratta) vengono considerati in sede di indagine preliminare alla programmazione. Ampiamente considerata, poi, in virtù della sua emergenza, è la composizione per nazionalità della popolazione studentesca. Sullo sfondo, comunque, restano le difficoltà legate a trasformazioni che non sono immediatamente prevedibili. Ad esempio, la quota dei bambini che effettivamente andranno alla materna, o ancor più al nido, non dipende solo dalle nascite, ma anche dalle trasformazioni dei contesti familiari o del mercato del lavoro. Anche nel settore sanitario c’è uno specifico ambito disciplinare (la statistica medica) che si occupa di misurare come si evolvono determinate patologie. Sugli insediamenti abitativi, invece, il ruolo del pubblico è necessariamente ridotto: qui domanda e offerta agiscono in autonomia. Sull’ultima questione è difficile dare risposte univoche. È vero, ad esempio, che i nuovi nati possono essere potenziali disoccupati, ma è anche vero che attivano nuova domanda e, quindi, nuova offerta che qualcuno dovrà produrre. Peraltro il nuovo nato, mentre alimenta domanda di servizi fin da nove mesi prima della nascita, giunge a offrire il suo lavoro solo 20 o 25 anni più tardi. Non c’è dubbio, infine, che sia ormai insostenibile il vecchio modello previdenziale. Insomma, il quadro è piuttosto complesso e anche i ragazzi che non studiano e non cercano lavoro (i Neet), più che il frutto di dinamiche demografiche, sono l’immagine di una generazione scoraggiata, mortificata e intimorita da un futuro che noi non siamo in grado di garantire loro.

Andrea Fagioli