La liberazione di Baghdad

Caro Direttore,mi permetta un piccolo sfogo. Eccoli, sono arrivati, sono nella piazza, la voce della giornalista è concitata, gli americani sono nel cuore di Baghdad. Guardo la televisione con la mia mamma, mentre scorrono le immagini lei mi dice che questi momenti la fanno tornare indietro nel tempo, a quando, bambina di dieci anni, era in strada ad applaudire e festeggiare i carri armati ed i soldati americani che sfilavano vittoriosi, i bambini salivano sui carri e le donne portavano fiori. Vedo un baffuto signore iracheno che dà un bacio ad un soldato, vedo un padre che porge il figlioletto ad un carrista perché lo faccia sedere accanto a lui sul suo mezzo, ascolto l’intervista ad un marine il quale si dice che è felice di essere lì a combattere per la libertà di quella gente; è sincero, è lontano dai giochi della politica, crede in quello che sta facendo, come lo credevano quelle migliaia di ragazzi morti sulle spiagge di Normandia.Ascolto alla radio un esule iracheno da anni in Italia, dice: «lasciatemi assaporare questo momento, il più bello della mia vita, del dopo ne parleremo, questa è la libertà».Sono morte molte persone; purtroppo abbiamo visto la sofferenza ed il dolore di bambini, di genitori che si chiedevano «perché?». Ma si chiedevano «perché» quei bambini curdi mentre il gas li soffocava, morti con la manina stretta a quella della loro mamma, quattromila in poche ore, più di tutti i morti in venti giorni di guerra, solo per il capriccio di un boia?

Per queste cose io virtualmente metto al mio balcone la bandiera americana e quella inglese, per queste cose non metterò quella bandiera della pace strumentalizzata da persone che hanno detto cose vergognose, da persone che la innalzano assieme a quella di Che Guevara o che la portano cantando «Bella ciao», che non sono operatori di pace ma ipocriti della peggior specie.

Per queste cose bisogna stare attenti a dir frasi come: «Ci sono dei momenti in cui l’indipendenza conta più della libertà», oppure: «Quanti sanguinari dittatori vengono lasciati indisturbati perché fanno comodo.Enrico MungaiVaiano (Po)

Su questa guerra, la prima veramente «mediatica», siamo stati sommersi per oltre un mese da notizie e resoconti di inviati, con l’apparente impressione di sapere cosa stesse effettivamente accadendo. In realtà a una ventina di giorni dalla conclusione delle ostilità sono ancora tanti gli interrogativi su come si siano svolte le operazioni, sul numero reale delle vittime (specie militari iracheni), sulla presenza di armi di sterminio di massa o su che tipo di trattativa vi sia stata in alcune fasi del conflitto (quella ad esempio che ha permesso agli alleati di entrare a Baghdad quasi senza colpo ferire). E fermarsi alla celebre telecronaca dell’abbattimento della statua di Saddam o a qualche (rara) scena di giubilo della popolazione per l’arrivo degli alleati, anche se rassicurante per la nostra coscienza, non ci aiuta a capire. Ad eccezione dei curdi al nord, che già da tempo avevano uno stretto legame con gli americani e che dagli stati confinanti hanno solo da temere, non mi sembra che gli iracheni abbiano accolto gli alleati come «liberatori». Neanche gli sciiti che pure avevano mille motivi per odiare il dittatore Saddam. Gli strateghi del Pentagono si dicevano certi che al primo missile alleato il popolo iracheno avrebbe cacciato Saddam o che i suoi generali lo avrebbero deposto. Che non sia avvenuto, nonostante copiose elargizioni di dollari americani ai capi tribu, e la frenetica attività di intelligence, è sotto gli occhi di tutti. È vero che gli iracheni non hanno fatto molto neanche per difendere il loro «rais», ma temo che se gli americani continueranno a comportarsi più da occupanti che da liberatori (vedi la repressione nel sangue di alcune manifestazioni anti-Usa, o la volontà di imporre determinate ditte per la ricostruzione) la situazione potrebbe di nuovo precipitare.