La liberazione di Baghdad
Per queste cose io virtualmente metto al mio balcone la bandiera americana e quella inglese, per queste cose non metterò quella bandiera della pace strumentalizzata da persone che hanno detto cose vergognose, da persone che la innalzano assieme a quella di Che Guevara o che la portano cantando «Bella ciao», che non sono operatori di pace ma ipocriti della peggior specie.
Su questa guerra, la prima veramente «mediatica», siamo stati sommersi per oltre un mese da notizie e resoconti di inviati, con l’apparente impressione di sapere cosa stesse effettivamente accadendo. In realtà a una ventina di giorni dalla conclusione delle ostilità sono ancora tanti gli interrogativi su come si siano svolte le operazioni, sul numero reale delle vittime (specie militari iracheni), sulla presenza di armi di sterminio di massa o su che tipo di trattativa vi sia stata in alcune fasi del conflitto (quella ad esempio che ha permesso agli alleati di entrare a Baghdad quasi senza colpo ferire). E fermarsi alla celebre telecronaca dell’abbattimento della statua di Saddam o a qualche (rara) scena di giubilo della popolazione per l’arrivo degli alleati, anche se rassicurante per la nostra coscienza, non ci aiuta a capire. Ad eccezione dei curdi al nord, che già da tempo avevano uno stretto legame con gli americani e che dagli stati confinanti hanno solo da temere, non mi sembra che gli iracheni abbiano accolto gli alleati come «liberatori». Neanche gli sciiti che pure avevano mille motivi per odiare il dittatore Saddam. Gli strateghi del Pentagono si dicevano certi che al primo missile alleato il popolo iracheno avrebbe cacciato Saddam o che i suoi generali lo avrebbero deposto. Che non sia avvenuto, nonostante copiose elargizioni di dollari americani ai capi tribu, e la frenetica attività di intelligence, è sotto gli occhi di tutti. È vero che gli iracheni non hanno fatto molto neanche per difendere il loro «rais», ma temo che se gli americani continueranno a comportarsi più da occupanti che da liberatori (vedi la repressione nel sangue di alcune manifestazioni anti-Usa, o la volontà di imporre determinate ditte per la ricostruzione) la situazione potrebbe di nuovo precipitare.