In India per delocalizzare la produzione
Niente vietava alla Coop di destinare risorse anche cospicue alla Chiesa missionaria per il libero uso di carità che questa intraprende quotidianamente. E se mai la Coop avesse voluto fare una attività di emancipazione dei lavoratori dell’India doveva trattarli con salari adeguati rompendo lo schema perverso e diabolico che vede lo sfruttamento selvaggio di interi popoli mantenuti nelle condizioni di miseria approfittando di stati dittatoriali come la Cina o di stati feudal-democratici come l’India, e non con il misero euro giornaliero! Uno stipendio da dipendente Coop avrebbe consentito di fare subito la dote a settanta ragazze anziché sfruttarle per anni!
Sull’opportunità della presenza del presidente della giunta regionale Claudio Martini, all’inaugurazione della fabbrica di camicie a Madaplathuruth, in India, si può ovviamente discutere e anche dissentire. Di per sé mi sembra però una cosa positiva, che sottolinea l’impegno sinergico di varie realtà toscane. Del tutto fuori luogo sono invece le accuse all’Unicoop Firenze. Non si tratta qui di un processo di delocalizzazione della produzione (cioè l’andare a produrre là dove la manodopera costa meno), ma di un’attività di cooperazione e aiuto allo sviluppo, sul tipo di quelle del «consumo equo e solidale». Il problema, infatti, non era solo quello di trovare i fondi per costruire la fabbrica, ma di garantire la vendita del prodotto ad un prezzo equo. E questo è stato possibile perché l’Unicoop ha accettato di distribuire quelle camicie nei suoi centri commerciali. Tra l’altro, così come ha fatto negli anni passati per i presepi degli artigiani di Betlemme, si assume anche il rischio di non recuperare nemmeno quanto anticipato subito ai produttori. Che interesse ha nel fare questo? Certamente ne ha un ritorno di immagine, ma dobbiamo dare atto a questa grossa realtà cooperativa di mostrare una crescente attenzione per gesti di solidarietà, anche in collaborazione con il mondo missionario.