Immigrazione,la lezione dell’America
Caro Direttore,
il problema dell’immigrazione nel nostro Paese è un vecchio problema, che non è mai stato affrontato con l’impegno che avrebbe meritato e che, pertanto, ha prodotto nella sua arbitraria manifestazione tanti danni noti a tutti (per questo non li cito), insieme a qualche vantaggio nel mondo del lavoro non qualificato, che noi italiani rifiutiamo.
Nella problematica sull’argomento sono emerse due tendenze: una di larga apertura nei confronti di ogni tipo di immigrazione; una cauta apertura regolata e controllata per legge.
Nell’opinione pubblica favorevole alla tesi di larga apertura, circola l’idea che, come gli Stati Uniti d’America accolsero chiunque volesse immigrarvi, e tra questi tanti italiani, senza limitazioni di sorta, così si dovrebbe ora comportare l’Italia.
Fin dall’epoca coloniale in America era entrata gente di ogni paese, senza incontrare ostacolo alcuno. I nuovi arrivati erano così desiderati che negli stati più recenti funzionavano uffici incaricati di attrarveli. Data l’abbondanza di terre, il loro arrivo non provocò alcun turbamento alla struttura economica.
L’ospitalità tradizionale offerta dall’America a tutti gli europei bisognosi, fu degnamente ricordata da Emma Lazarus, sull’epigrafe per il piedistallo alla dea della Libertà, la grande statua situata all’ingresso del porto di New York nel 1886, grazie alla generosità dei francesi:«Tenetevi il vostro patrimonio di storia, o antichi popoli!», invoca senza schiudere le labbra. «Datemi le vostre folle stanche, povere, oppresse, che anelano a respirare aria libera. Gli sciagurati respinti dalle vostre rive brulicanti. Mandatemi i senza patria, sballottati dalle tempeste. Tengo alta la lampada accanto alla porta d’oro».
Il monumento non era ancora ultimato, che gli avvenimenti cominciarono a preannunciare un atteggiamento meno ospitale. La massa proveniente dall’Europa orientale e meridionale affrettò l’adozione di una nuova politica verso gli immigrati. Si faceva strada il convincimento che, con la graduale scomparsa delle concessioni gratuite di fattorie nell’Ovest e con i gravissimi problemi sollevati dagli stranieri che si ammassavano nelle città, l’interesse nazionale esigesse una certa selezione.
Il Congresso reagì con una serie di provvedimenti sempre più rigidi. La legge del 1882 negò il permesso di entrare nel paese agli alienati, a chi avesse subito una condanna e a tutti coloro che, presumibilmente, sarebbero finiti a carico delle istituzioni pubbliche.
A pochi anni l’una dall’altra si aggiunsero altre restrizioni, finché nel 1903, i gruppi esclusi compresero i minorati fisici, mentali e morali di qualunque tipo, gli affetti da malattie contagiose, i mendicanti abituali, gli immigrati bisognosi di assistenza, i poligami e gli anarchici.
Dal 1900 al 1917 erano entrati dall’Europa negli Stati Uniti 14.300.000 tra uomini, donne e ragazzi. Tra essi prevalevano gli analfabeti. Il Congresso, perciò, nel 1913 riesumò la proposta per la non ammissione degli analfabeti, che fu approvata nel 1917.
L’acceso sentimento nazionalistico alimentato dalla guerra, la paura di una ondata di elementi inferiori e forse anche radicali dall’Europa devastata, le richieste sindacali, spinsero il Congresso ad emanare leggi limitative dell’immigrazione, portando al 3% degli immigrati dei rispettivi paesi verso gli Stati Uniti nel 1910; del 2%, prendendo per anno di computo il 1890.
La legge inoltre stabiliva che non appena portati a termine i difficili calcoli, l’afflusso sarebbe stato mantenuto ad un livello approssimativo di 150.000 e che da quel momento la quota per ogni paese sarebbe stata fissata in rapporto alla consistenza numerica degli americani discendenti dalle rispettive specifiche nazionalità. Il provvedimento restrittivo secondo la nazionalità originaria entrò in vigore nel 1929.
Il mio augurio è quello che l’Italia maestra di civiltà e di diritto, di fraternità umana, impari, regoli secondo i veri bisogni i disordinati afflussi delle odierne migrazioni.