Il «no» di Bush alla Corte penale Onu

Caro Direttore,la scorsa settimana, fra il silenzio dei media e lo sconcerto degli ambienti diplomatici, Onu in testa, gli Stati Uniti (amministrazione Bush) hanno ritirato la firma che, insieme ad altri 138 Paesi, avevano apposto (amministrazione Clinton) al Trattato di Roma del 1998, istitutivo della Corte Penale Internazionale, un tribunale permanente con giurisdizione sui crimini contro l’umanità compiuti in tutto il mondo. Meno di un mese prima, l’11 aprile, la CPI era diventata realtà, allorché furono raggiunte e superate le 60 ratifiche da parte dei Paesi firmatari, richieste dal Trattato per rendere operativo il Tribunale. Credo che la gravità dell’iniziativa americana si commenti da sola, sia perché avviene nel bel mezzo della più estesa caccia all’uomo che mai sia stata condotta nella storia, sia perché crea un precedente pericolosissimo per gli stessi Usa (è la prima volta che un Paese ritira la firma da esso stesso apposta su un trattato internazionale), che tolgono così ogni credibilità alla loro stessa firma e all’uso che vorranno farne in futuro. Ma ciò che è più grave è la motivazione che lo stesso Presidente ha addotto per giustificare questa singolare iniziativa: «Non vogliamo che i nostri militari e i nostri diplomatici che operano fuori dei confini nazionali possano essere giudicati da un Tribunale non americano». Il che, alla luce di quanto essi stessi hanno fatto per la creazione di tribunali ad hoc per la ex Jugoslavia e per il Rwanda, significa «Noi possiamo giudicare chiunque, ma nessuno potrà mai giudicare noi».L’11 settembre ci siamo stretti tutti quanti intorno all’America, profondamente colpiti e sinceramente solidali con le sue vittime ed i suoi dirigenti politici. È un vero peccato che quel capitale di vicinanza e simpatia umana e politica che, con i tragici fatti delle Torri gemelle, l’amministrazione americana si era suo malgrado conquistata, sia stato da allora utilizzato non tanto per i fini di giustizia che l’avevano reso possibile, quanto piuttosto per ottenere una sorta di licenza di intervenire nel mondo senza alcun vincolo, regola o controllo da parte di chicchessia, a cominciare dalla sempre più depotenziata Organizzazione delle Nazioni Unite. Certo, con o senza gli Stati Uniti, il prossimo 1 luglio, la Corte Penale Internazionale si insedierà ed inizierà il suo lavoro. Ma sarebbe ipocrita nascondersi che la mancata adesione all’iniziativa da parte della superpotenza americana non sarà ininfluente sull’efficacia dell’azione del Tribunale nel combattere il terrorismo ed ogni altro crimine contro l’umanità e, quindi, sulla sua reale capacità di porre finalmente in atto quei principi di legalità internazionale di cui tutto il mondo sente, da tempo, un tremendo bisogno.Marco ParriniFirenze Purtroppo le cose stanno proprio così: nonostante che gli Usa (quando era presidente Clinton) siano stati tra i 139 Paesi firmatari dello Statuto della Corte Penale internazionale, nei giorni scorsi l’amministrazione Bush ha comunicato ufficialmente al Segretario generale dell’Onu che non solo non ratificherà il Trattato, ma che non si sentirà in alcun modo obbligata dalle sue decisioni. E le motivazioni sono proprio quelle ricordate nella lettera: la paura che soldati americani in missione all’estero finiscano sotto processo.Ricordiamo che di una Corte Penale Internazionale si era cominciato a parlare al termine della Seconda guerra mondiale e che era stata prevista nella convenzione del 1948 contro il genocidio. Ma solo nel 1993 l’Onu ha cominciato a parlarne sotto la spinta delle Organizzazioni non governative. Il 17 luglio del 1998, a Roma, lo Statuto è stato firmato da 139 stati membri dell’Onu su 160 presenti (7 i contrari, 21 gli astenuti, 12 assenti al voto). I crimini di competenza sono il genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra, l’aggressione, anche se su quest’ultimo non esiste un accordo preciso soprattutto sulle modalità di procedura.