Eutanasia sui minori, la deriva del Belgio rischia di diffondersi
Gentile direttore, il caso del minorenne belga al quale è stata concessa l’eutanasia ha riaperto un dibattito su un tema complesso e delicato. È diffusa la mentalità per cui l’eutanasia è la risposta alla sofferenza che va debellata. Questo modo di ragionare ci porta ad un paradosso; per cancellare la sofferenza si cancella il malato che si dice di voler aiutare.
Oggi esistono parecchi strumenti per alleviare il dolore. E poi nessuno può escludere che possa aprirsi una possibilità di guarigione anche nei casi più disperarti.
Qualche tempo fa un noto giornalista laico e non credente disse di essere contrario alla legalizzazione dell’eutanasia per gli abusi che potrebbero verificarsi. Infatti in alcuni paesi la cosidetta «dolce morte» è stata estesa anche ai malati di mente,depressione cronica ecc. Le regole formalmente ci sono ma le maglie sono assai larghe.
Fabiano Bermudez
Del caso della prima eutanasia in Belgio effettuata su un minore, ci siamo occupati nel numero scorso con un commento in prima pagina a firma del noto psicologo e psichiatra Tonino Cantelmi nel quale si spiegava come certe scelte siano frutto di una società triste in preda alla depressione. Sull’argomento torniamo volentieri, non perché ci piaccia (tutt’altro), ma perché è giusto tenere alta l’attenzione.
Tra l’altro, in questi giorni, ci è arrivato anche un contributo di Paolo Delprato, presidente di «Scienza & vita» di Siena, che conferma come la deriva del Belgio rischi di diffondersi nel resto d’Europa. Infatti, da quando è stata permessa si è rapidamente arrivati ad avere oltre duemila richieste all’anno. Nella maggior parte dei casi non si tratta «di malati terminali o affetti da malattie degenerative incurabili», ma «di persone affette da depressione, da cecità, persone sofferenti di solitudine, carcerati…». Questo, a giudizio dell’associaizone senese, confermerebbe i «peggiori timori, ovvero che una volta tolto dal nostro ordinamento e dalle nostre “regole civili” il principio che il medico deve curare e non uccidere direttamente e volontariamente il suo assistito, scatta subito una deriva inarrestabile di allargamento e di “banalizzazione” che, facendo leva sui drammi del fine vita, trasforma l’eccezione in regola. È lo stesso discorso, con le dovute modifiche, dell’aborto che da “extrema ratio” è ormai diventato per molti un “diritto”». Da qui anche il costante richiamo di Papa Francesco a contrastare quella che lui, con una immagine di forte impatto, ha definito la «cultura dello scarto».
Andrea Fagioli