Disoccupazione giovanile: di chi è la colpa?

Poco tempo fa durante una trasmissione di Radio Uno sul lavoro dei giovani ho sentito affermare dalla conduttrice che la disoccupazione giovanile «è colpa di tutti». Questo giudizio, che pareggia sommariamente il dare con l’avere ed equipara la notte al giorno, a me proprio non è andato giù. La disoccupazione giovanile è un nodo che è venuto al pettine ma si denuncia il fatto senza cercare di rilevarne le reali sue cause evidenziando solo quelle più generali quali la crisi finanziaria, la mondializzazione, le Banche voraci, ecc. che sicuramente hanno avuto ed hanno un peso notevole nella diminuzione delle occasioni di lavoro ma, a mio modesto avviso, il problema parte da molto più lontano.

Ho trovato conferma ascoltando su Tv2000 un professore affermare che in Italia ci sono circa 3 milioni di disoccupati, di cui moltissimi sono giovani, che hanno rifiutato certi lavori che però vengono svolti dai lavoratori stranieri (5 milioni). In altre trasmissioni sono anche venuto a conoscenza di alcune tipologie di lavoro rifiutato: famoso il panettiere di Chieti che non riusciva a trovare un apprendista, ben pagato, da avviare al suo mestiere; famoso il disappunto di un delegato Cisl della Val Padana che dichiarava che le madri non mandavano i figli a lavorare negli allevamenti dei bovini, ancorché ben pagati, perché lavoro non dignitoso. Conseguenza: nella Val Padana oggi ci sono molti vaccai indiani, bravi (così si dice) e ben retribuiti; famosi i dati del Cna di Mestre dai quali si rilevavano molte decine di migliaia di offerte di lavoro specialistico non coperte. E si potrebbe continuare.

Non penso però che sia tutta colpa dei giovani né, come già detto, delle cause negative contingenti. Sono invece convinto che oggi venga raccolto quello che è stato seminato anni fa in termini ideologici, educativi e formativi che «hanno» penalizzato l’«essere» e privilegiato l’«avere» e l’avere tutto, subito, gratis e soprattutto senza sforzo. Gli aspetti educativi e formativi sono stati stravolti dalla distruzione dei valori, fondamentali per una società solidale e coesa, quali il rispetto della vita, la famiglia, l’onestà, la dignità, la coerenza, l’impegno costruttivo, la fede, il rispetto delle regole, il lavoro come necessità per il proprio sostentamento, ecc., valori che costituivano la base educativa e formativa delle generazioni pre-sessantottine, alle quali mi onoro di appartenere, che hanno ricostruito l’Italia e realizzato il miracolo economico negli anni, mai così da me tanto rimpianti, se pur molto difficili, dei primi tempi della prima Repubblica. Quindi mi sembra evidente che non «è colpa di tutti» ma si possono invece identificare precise responsabilità di chi ha propagandato e imposto un certo tipo di Kultura che ha portato la società italiana a disgregarsi e quasi frantumarsi, dimenticando il biblico «ti guadagnerai il pane col sudare della fronte» e quando lo si ricorda, rarissimamente ormai, si pensa che la fronte non sia la propria ma quella degli altri.

MarcelloFirenze

Caro Marcello, come da lei richiesto pubblichiamo solo il nome e manteniamo quasi integrale (solo piccoli tagli in qua e là) la sua lunga lettera, anche perché scritta a mano (una rarità) e con una calligrafia molto precisa (rarità ancor più rara, se così si può dire). Gli spunti che offre alla riflessione non sono pochi. Tenterò una risposta in estrema sintesi, anche perché mi aiuta, questa settimana, il rimando al «primo piano» con l’articolo di Romanello Cantini e all’editoriale di Pier Angelo Mori. In parte è vero che gli italiani non vogliono (o non volevano) più fare certi lavori. Le badanti o i badanti sono quasi tutti stranieri e a parte qualche eccezione vanno davvero ringraziati per quello che fanno. Ma sarebbe semplicistico ridurre a questo il problema, sempre più drammatico, della disoccupazione giovanile. Mentre si può essere d’accordo sulle colpe di una cultura che ha privilegiato l’«avere» sull’«essere», che è quella consumistica più che quella alla quale, presumo, si riferisca lei scrivendola col «k». In ogni caso i nostri stili di vita sono destinati a cambiare pur non sapendo con quali conseguenze.

Andrea Fagioli