Diritto umanitario per i profughi, non sono clandestini

È stato ampiamente dimostrato che il grado di civiltà di una comunità lo si misura dalla capacità di farsi carico dei diversi problemi che in essa emergono, e di trovare, attraverso l’intelligenza e la capacità umana, le migliori soluzioni possibili e valide anche per il prossimo futuro. Certe affermazioni scriteriate di persone che occupano posti istituzionali, senza aver acquisito il senso di appartenere allo Stato italiano nell’era della globalizzazione e dei mutamenti epocali, stridono con un moderno concetto di civiltà umana; meno ancora se questa fonda le sue radici nella storia del cristianesimo.

Sicuramente tutto il fenomeno migratorio che abbiamo registrato nel decennio scorso, e che ha portato in Italia per necessità di lavoro alcuni milioni di persone, non è stato gestito con lungimiranza e senso di responsabilità per favorire la dovuta integrazione nel contesto sociale italiano. È prevalso il concetto di quote di lavoro, ma con i lavoratori sono arrivate le loro famiglie, che hanno trovato, oltre al lavoro soprattutto nell’edilizia che galoppava, alloggio in affitto.

Sono numerose le nazionalità di immigrati presenti in Italia e che, sommate, costituiscono oltre il dieci per cento della popolazione residente. Principalmente abbiamo albanesi, marocchini e rumeni che hanno lasciato il loro Paese unicamente con l’obbiettivo di migliorare il tenore di vita.

Ben diversa è la condizione dei profughi che ora pervengono dalle zone martoriate da guerre civili in varie parti dell’Africa. Per queste persone, perché di persone si tratta, e non di clandestini come qualche rozzo politico li vuol definire, deve prevalere il diritto umanitario rispetto ad ogni altro calcolo di merito.

Certamente siamo di fronte a problematiche complesse, che richiedono piena lucidità e ragionevolezza da parte dei responsabili politici, oltre che la massima collaborazione e coesione sociale dei cittadini da favorire a cura dell’associazionismo e dei corpi intermedi, che costituiscono l’ossatura di ogni comunità. Anche in questo momento difficile, e per alcuni versi drammatico, insieme a quanti sono già impegnati in prima linea perché si affermi ovunque legalità e giustizia, il popolo italiano dovrà dimostrare la sua capacità di risposta civile, nel rispetto della dignità di ogni persona, ad un problema umanitario che chiama in causa ed interpella la coscienza di ciascuno.

Giuseppe Delfrate

Caro Delfrate, in prima pagina di questo numero pubblichiamo un editoriale a firma di Adriano Fabris dedicato a uno dei dibattiti che interessano o si tenta di far credere che interessino maggiormente l’opinione pubblica, ovvero quello sulla «formalizzazione dei legami fra persone dello stesso sesso e della possibilità che queste coppie possano adottare o procreare, direttamente o per interposta persona». Fabris, molto giustamente parte e conclude il suo articolo facendo riferimento a vicende sulle quali invece si dovrebbe concentrare la nostra attenzione e tra queste proprio l’immigrazione. Infatti, «quelli a cui stiamo assistendo in questi giorni sono davvero – spiega il nostro editorialista – eventi di portata epocale. Migliaia di persone stanno sbarcando nel nostro paese, dopo mesi di viaggio in condizioni disperate. Se l’accoglienza è un gesto imprescindibile di civiltà, la loro permanenza è destinata a cambiare la vita, gli equilibri, la cultura stessa del nostro paese e dell’Europa alla quale apparteniamo. Dovremmo dunque preoccuparci, per quanto compete a ciascuno di noi, di affrontare al meglio quest’emergenza, nell’ottica di un’integrazione in grado di offrire opportunità per tutti. Invece si susseguono le solite polemiche, espressione di una paura che paralizza ma non risolve i problemi, e di un buonismo spesso altrettanto velleitario». In ogni caso quello che abbiamo sentito da alcuni politici e visto fuori dalle nostre stazioni o alle frontiere chiuse di Paesi vicini ci rattrista davvero.

Andrea Fagioli