Cogne, magistrati che si credono infallibili

Caro Direttore,ho letto e riletto tante volte l’articolo di Umberto Santarelli «Su Cogne la solita gazzarra» (TOSCANAoggi n. 12 del 24 marzo 2002), ma non sono riuscito a comprenderlo. Infatti, mentre dichiara «ci guardiamo bene da aggiungere un nostro giudizio, che non potrebbe che essere temerario», ad un certo punto elargisce lodi e giudizi favorevoli a quei tre magistrati, dichiarando che «bisogna ringraziarli per lo stile, la discrezione, il senso del limite della responsabilità che stanno dimostrando». Il giornalista forse non ha osservato tutte le varie inopportune interviste, dichiarate non volute, ma ricercate («fra pochi giorni risolveremo il caso», dichiarò trionfante il sostituto procuratore due giorni dopo il delitto).Chi deve giudicare potrebbe sbagliare o no? Eppure vedendo e sentendo questi tre magistrati sembrerebbe di no! Loro hanno la verità in tasca, come quel lodatissimo criminologo Bruno che per un mese e mezzo ha sentenziato alla tv di Stato.Se si sbagliassero, e la mamma di Davide e Samuele fosse veramente dichiarata innocente e non pazza, cosa succederebbe poi? Inoltre quando uno deve giudicare lo faccia non ridendo come fanno i tre magistrati. A questo punto avrebbe ragione la nonna di Samuele che vorrebbe giudicare i tre magistrati.

Il popolo italiano con un referendum dichiarò che i magistrati che sbagliano debbono rispondere dei loro errori. Sono passati tanti anni, ma nessuno ha mai pagato. Eppure i cittadini, tramite lo Stato, pagano errori fatti da «persone» che si sentono «infallibili», non riconoscono errori, anzi si accaniscono (vedi l’ultimo caso il processo di appello al sen. Andreotti) che allo stato italiano costa miliardi che potrebbero essere spesi meglio.

Da un giornale non solo d’ispirazione cattolica, ma espressione delle Diocesi toscane mi aspettavo una parola di conforto a quella infelice Mamma doppiamente colpita: dalla perdita del figlio Samuele e dall’accusa di essere una assassina. Mi attendevo parole simili a quelle che mons. Maggiolini, vescovo di Como, ha espresso invitando a maggiore pietà e non finire con una sentenza «del giovane magistrato» basata su un sillogismo, per il quale silogismo lo stesso vescovo, concludendo il suo intervento televisivo, chiedeva di pregare. Giuseppe Luigi ValsecchiGrosseto

Risponde Umberto Santarelli

Siamo in due a aver fatto (inutilmente) la medesima cosa: anch’io ho letto e riletto questa missiva, e devo confessare di non averla capita; o, meglio, di non aver capito cosa c’entrino le (rispettabilissime) opinioni del signor Valsecchi con quel che io avevo scritto. Io m’ero limitato a constatare la riservatezza (doverosa, si capisce; ma pur sempre notevole) di questo giornale al confronto delle altrui gazzarre su un caso giudiziario particolarmente grave; e avevo detto che non m’erano piaciute le folle di «specialisti» che avevano sputato sentenze. Avevo aggiunto un apprezzamento per i magistrati di Aosta che avevano fatto il loro difficile lavoro in un modo che mi pareva (e séguita a sembrarmi) molto decoroso. Avevo anche detto che, comunque fossero andate le cose, andava rispettata la pena di chi già soffriva tanto: era un’ovvietà che tuttavia m’era parsa doverosa.Quel che appare chiaro è che il signor Valsecchi non ha simpatici i magistrati in genere. Ne prendo atto, aggiungendo solamente che l’umiltà che essi devono avere non comporta affatto l’incapacità di provvedere, anche quando i provvedimenti possono apparire particolarmente gravi. Quasi tutti i magistrati sanno bene di poter sbagliare (e lo hanno ripetuto anche questa volta), ma questo dell’errore è un rischio oggettivo del loro terribile mestiere, che nessuno potrebbe scansare senza venir meno al proprio dovere.Nomi e cognomi non ne farò, perché non mi sembra necessario: dirò solamente che a me ha dato noia tutta la gazzarra.