Chiesa e omosessualità, dibattito tra i lettori
Anche in questa circostanza, come in passato, il tema dell’omosessualità, rilanciato dalla lettera aperta all’Arcivescovo di Firenze e al nostro giornale (testo integrale della Lettera), ha suscitato un dibattito tra i lettori come raramente succede (sono arrivati anche degli studi veri e propri, come quello che ci ha inviato Gloria Gazzeri). Significa che siamo di fronte a quello che si direbbe un «nervo scoperto», ovvero a qualcosa che provoca tensione, ma anche reazioni incontrollate come quelle che emergono da alcuni interventi qui riportati per dovere di cronaca, ma dai contenuti altamente offensivi per il sottoscritto e per il giornale. Per di più contraddittori quando si dice che dovremmo ascoltare e poi eventualmente dissentire. E cosa stiamo facendo, se non questo? Per non parlare delle accuse (che rispediamo al mittente) di non avere rispetto e attenzione per le persone e la loro vita. Accuse che vengono rivolte più in generale alla Chiesa. Eppure, proprio nella risposta data alla lettera aperta nel numero del 16 settembre (foto a lato), si premetteva che «l’attenzione della Chiesa all’uomo non viene mai meno e rimane la priorità della sua missione».
Detto questo, è vero che il Catechismo non è il Vangelo. Ma è anche vero che è frutto del Magistero della Chiesa. La Chiesa è maestra così come la Chiesa è apostolica, ovvero fondata sugli apostoli e quindi sui loro successori: i vescovi. Lo diciamo nel Credo. La Chiesa indica la strada (ecco i principi a cui non può rinunciare e che ribadisce), ma non condanna (ecco il perdono sacramentale).
Infine, un paio di domande: La Chiesa ammette le convivenze eterosessuali al di fuori del matrimonio? No. La Chiesa ammette i rapporti prematrimoniali? No. E allora, dove sta la differenza con il non ammettere le convivenze omosessuali? Dov’è la discriminazione?
Andrea Fagioli
Formule giuridiche senza dialogo
Probabilmente non ci siamo capiti e continuiamo a ragionare su di un equivoco: nessuno di quelli che come me vive la condizione di credente omosessuale vuol mettere in discussione i fondamenti dogmatico-dottrinali sui quali si fonda l’attuale posizione della Chiesa riguardo le donne e gli uomini gay-cristiani e, ancora una volta ribadita nel vostro commento alla lettera al vescovo Betori. Non li discutiamo perchè li consideriamo pregiudizievoli di una qualsiasi possibilità di dialogo. Se di fronte alla richiesta di approfondire e analizzare l’essenza della persona omosessuale all’interno del grande progetto divino della creazione, nel quale evidentemente è ricompreso anche questo pezzo di umanità, la Chiesa si trincera dietro gli articoli del catechismo, quale dialogo è possibile? L’appello di suor Stefania e degli altri sottoscrittori era un invito proprio a superare la rigidità delle formule burocratiche della struttura verticista della Chiesa per far appello alla parte evangelica.
Che la dottrina della Chiesa, elaborata in secoli di studi e discussioni dalle conseguenze spesso molto dolorose, rappresenti lo scoglio al quale aggrapparsi in una situazione di evidente e comprensiva difficoltà è naturale ma credo ci sia da domandarsi se oggi il Salvatore userebbe termini come «disturbo comportamentale» o «comportamento contro natura» per definire una condizione che interessa l’intero aspetto delle vita di molte donne e uomini. Al di fuori della formule giuridiche la presenza di persone omosessuali nel popolo dei fedeli è nutrita e radicata.
Continueremo a credere nel messaggio di salvezza del Vangelo e a progettare una vita di coppia e di relazione che sappiamo può essere ugualmente gradita a Dio padre. Voi insisterete a dirci che così facendo tradiamo la natura e gli insegnamenti della Chiesa… l’importante è che non possiate mai dirci che abbiamo tradito Cristo.
Filippo
Presa di posizione ideologica
Nella lettera aperta su «Chiesa cattolica e omosessualità» gli autori affermano che: «Quello che ha portato ad un cambiamento radicale nella comprensione dell’omosessualità è stato un tragitto importante». È vero. E questo importante tragitto di comprensione ha portato a individuare nella pulsione omoerotica che alcune persone (solitamente definite «omosessuali») sperimentano, il sintomo di un disagio legato alla propria identità.
Quindi, al contrario di ciò che asseriscono gli autori, la maggior parte degli studiosi riconosce che l’attrazione omoerotica non è un elemento che caratterizza l’identità della persona, bensì è il sintomo di un disagio della sua identità. Come dire: non esiste una «identità omosessuale» ma invece una persona che ha avendo avuto problemi nello strutturare la propria identità può manifestare questo disagio con l’attrazione erotica per una persona del proprio sesso.
Dispiace leggere lettere come questa, che manifestano ignoranza sull’argomento e quindi rischiano di confondere le idee a persone non esperte, facendo loro apparire intransigenti, incoerenti e manchevoli di carità le posizioni della Chiesa, che al contrario rispettano profondamente l’essere umano, anche laddove manifesti la pulsione omoerotica.
Su questo errore di fondo si gioca non solo un ingiustificato senso di «antipatia» verso la Chiesa ma anche, ahimè, la possibilità per tante persone che vivono l’attrazione omoerotica in modo indesiderato, di poter valutare con obiettività la propria condizione e ricercare, se lo desiderano, il modo di modificarla. Questa è una vera prospettiva di libertà! Cercare di conoscere, di capire e poi agire secondo coscienza. Ma una coscienza che sia formata e quindi «ben informata»!
Per coloro che volessero approfondire l’argomento consiglio «Omosessualità maschile» del dottor Roberto Marchesini (uno dei massimi esperti nel settore), edito da Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. È un testo che ha il pregio di affrontare l’argomento in modo scientifico, ma anche comprensibile per un pubblico ampio, non necessariamente specializzato. La trattazione è davvero ricca e si sviluppa a partire dalla definizione di omosessualità; poi ne illustra le «cause» passando in rassegna numerosi illustri psicologi (Freud, Adler, Ferenczi, Jung, Klein, Lacan, Frankl, Bieber, Socarides, van den Aardweg, Moberly, Ferliga, ed altri, tutti quanti assertori dell’omosessualità come sintomo nevrotico); poi descrive la caratteristiche della psicologia dell’omosessualità maschile, le terapie, le questioni etiche, deontologiche, antropologiche e infine affronta il tema dell’omofobia.
Un altro testo, a carattere invece narrativo, è l’autobiografia di Luca di Tolve: «Ero Gay», edito da Piemme.
È davvero importante e necessario fare chiarezza sull’argomento, sia per evitare di nutrire un immotivato «fastidio» verso la Chiesa sia per aiutare coloro che desiderano essere liberati da una nevrosi. Ma gli autori della lettera a mio avviso assumono una posizione ideologica senza dare ragione della propria visione. Coloro che invece desiderano ponderare scientificamente o attraverso la testimonianza di Luca il tema dell’omosessualità possono farlo attraverso i due testi che ho consigliato.
Lettera firmata
Meno moderni dei medievali
Gentile direttore, dopo la scellerata parentesi cantiniana Dio sa quanto la Chiesa fiorentina, per non tradire l’eredita profetica di don Milani e del cardinale Martini, avrebbe bisogno di un sussulto di carità e invece la risposta data dall’Arcivescovo di Firenze alla lettera di alcuni pastori circa una più evangelica accoglienza verso i gay pone la disciplina canonica quale spartiacque tra verità ed errore con una punta di raffinata diplomazia (nega sempre, distingui spesso, concedi poco).
Rivolto a scribi e farisei Gesù riprovò l’uso di leggi destinate a chiudere il Regno ed a moltiplicare i pesi sulle coscienze. Un Papa accentratore come Innocenzo III nelle «Decretali» (III,10) affermò che tutto quel che si fa contro coscienza conduce all’inferno. Il «medievale» Tommaso d’Aquino rilevò che come il medico non dà al malato tutta quanta la medicina per non farlo ancor più ammalare così il sacerdote non commina al peccatore l’intera pena per non portarlo alla disperazione. La potestà di sciogliere e legare va usata con giudizio di discrezione adattandola (aptetur) ai singoli casi (S.Theol., P.III, Suppl. pp.17-19). Si vuol essere meno moderni dei medievali? Forse l’Aquinate era relativista?
Tutto questo accade perchè alle Chiese locali il pastore diocesano viene imposto dall’alto e non espresso dalle comunità di fedeli. Siamo ancora alle «piaghe» denunciate dal Rosmini nel XIX secolo?
Mauro La Spisa
Non si sa di cosa si parla
2) 2358. Si usano parole come «tendenza» come «inclinazione» o «condizione» parlando di quello che si ignora essere un’identità e quindi parte integrante della persona: non una fase, non una curiosità ma proprio quello che il Signore ha dato alla persona, una manifestazione della richezza della natura, non qualcosa che si è scelto di deviare dalla natura stessa. ogni Cristiano, poi, è chiamato a mettere in pratica quello che si scrive in fondo a questo paragrafo e nel paragrafo successivo, il 2359, da cui si potrebbe cancellare la parola «omosessuale» e non cambierebbe una virgola. la castità è un concetto dello spirito e ogni Cristiano vi è chiamato, o no?
Credo che il Vangelo di oggi sia illuminante per la stessa Chiesa di Pietro: «Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Marco, 8, 33). Siamo sicuri che ciò che si scrive sull’omosessualità nel Catechismo della Chiesa cattolica o in altri testi provenga da Dio? Non aggiungo altro.
A nome del Gruppo Bethel ringrazio suor Stefania Baldini, don Fabio Masi, don Alessandro Santoro e don Giacomo Stinghi per aver chiarito la posizione loro e di molte persone cristiane in Italia attraverso una lettera così puntuale e lucida. Ce n’era bisogno. Gli articoli del Catechismo della chiesa cattolica elencati poco sotto mettono in evidenza un fenomeno preoccupante, in Italia, riguardante il fatto che i vertici del Vaticano continuano a parlare dell’omosessualità dimenticando il messaggio evangelico d’amore e di accoglienza. Inoltre la chiesa di Roma in genere parla, da sempre, «delle» e «degli» omosessuali senza parlare «con» loro. Prima o poi questo pericoloso ed incivile stato di cose dovrà cambiare.
Gentile Direttore,nel confronto molto interessante che avete avviato in merito all’omosessualità e, più in generale, intorno alla natura della persona, della sua identità nella relazione con se stesso e con l’altro, ho notato in molte risposte, pur ben argomentate, una sorta di incapacità di prendere la mira per centrare il giusto bersaglio. Come se guardassimo il dito e non la luna. Si parla in ogni dove di diritti civili, dando ormai per assunto che una società civile debba contemplare l’aborto, il divorzio, la libertà sessuale, l’omosessualità, le famiglie arcobaleno e l’eutanasia quali trofei delle grandi battaglie per i diritti civili. C’è in questa tendenza il marchio di una cultura edonista ed individualista che sostanzialmente controverte l’ordine della natura e fa passare per diritto ciò che è schiavitù e per dannazione ciò che invece è libertà. C’è un tentativo cioè di minare alla base la natura e l’identità della persona, di distruggere la famiglia come perno di una società e di sostituire l’uomo e la donna con entità ambigue, con il disordine, con il caos. L’uomo al centro di se stesso, dio del proprio destino, e tutto il resto che gira intorno in una affannata e vana ricerca di un senso.
Tanti si riempiono la bocca parlando di persone dello stesso sesso che si amano, di autodeterminazione della donna, di separazione degli sposi come conquiste acquisite per il miglioramento della società. In molti però si dimenticano che, oltre alla teoria, esiste la pratica e che a volte sarebbe il caso di andare a vedere i risultati. Del resto, un approccio analitico dovrebbe essere la strada maestra per chi fa della ragione l’unico orizzonte possibile. A quanto pare, invece, costoro ritengono che la scienza e la verifica empirica valgano soltanto a livello intellettuale ed esauriscano il compito con i loro contorti ragionamenti. Noi al contrario vogliamo andare sul campo a verificare quello che stanno producendo le cosiddette battaglie per i diritti civili. Ebbene, gli aborti, oltre ad uccidere delle vite indifese e innocenti, lasciano ferite indelebili nelle donne che vi si sottopongono; la loro psiche si indebolisce e spesso l’esistenza è segnata. Si pensa di risolvere il problema distribuendo preservativi a pioggia, a partire dall’installazione di distributori nelle scuole. Risultato? I ragazzi e le ragazze non si educano più alla sessualità ma praticano sesso come se prendessero un caffè, senza più porsi neppure il problema di cosa significhi amare una persona, camminarvi insieme, scoprirsi.
Ne conseguono personalità fragili, spesso egocentriche ma molto labili che non sono in grado di assumersi una responsabilità e di costruire relazioni durature. E qual è il problema, si ribatte? Se si sposano, possono divorziare. Già, il divorzio, il diritto sacrosanto: ma scusate, quando un’azienda fallisce qualcuno è contento? Nessuno, perché si perdono dignità, serenità, posti di lavoro, soldi. E se fallisce una famiglia, non è un male allo stesso modo? I fallimenti feriscono chi li vive e soprattutto chi li subisce. Andiamo a vedere come stanno i bambini dei divorziati, se sono felici nelle famiglie allargate o nelle famiglie arcobaleno, se non vorrebbero vedere il babbo e la mamma uniti.
Amici, non ci prendiamo in giro: il divorzio è legittimo, perché nessuno può costringere due persone a stare insieme, ma non è certo un bene. Fa male a tutti, come ogni frattura. Ma perché insistere con questo concetto di famiglia, replicano taluni? Come se il male per i figli non fosse il fatto che i genitori si sono separati, ma piuttosto che questa impostazione di società fa crescere i figli con una concezione di famiglia sbagliata, che non c’è più. Peccato che sia l’inclinazione naturale dei bambini a ricercare l’armonia nell’unione che ha dato loro la vita, ovvero quella tra il babbo e la mamma. Ma taluni di cui sopra non vogliono intendere e pensano che sia saggio far sparire dal vocabolario moderno la parola stessa “famiglia”. Non esiste più, oggi vi sono altre forme d’amore. E allora meglio parlare di “varie forme di amore”, piuttosto che di famiglia. Da qui i gay pride, i ritrovi lgbt ovvero lesbiche, gay, bisex e transessuali.
Ma ci rendiamo conto? Qui non parliamo di persone che hanno tendenze omosessuali e che vanno assolutamente rispettate con le loro vicende personali, degne di attenzione e di ascolto e, perché no, di un confronto serio sui diritti che poi sono quelli sacrosanti di ogni persona. No, qui parliamo di un’altra cosa, ovvero del tentativo di mescolare ogni cosa e sovvertire l’ordine della natura, come se andasse tutto bene: gay, lesbiche, ma soprattutto bisex e trans. Tutto normale. Anzi, alla fine ci sarà quasi da giustificarsi se un uomo ama una donna e magari solo quella per tutta la vita.
Non so se chi sostiene certe posizioni è mai stato ad un raduno lgbt, dove vi è una strumentalizzazione ideologica della questione con un’ostentazione volgare della sessualità che a mio avviso offende gli stessi omosessuali. Non è forse questa situazione, più che una “condizione dell’uomo” o “un’altra forma di amore”, un effetto della Babele moderna, che ho rapidamente provato a descrivere e in cui la persona non riesce ad orientarsi con conseguenze sul proprio equilibrio psicologico e affettivo? Secondo me, ma più che altro secondo i fatti, lo è. Per molti invece no e se tutto questo sconquasso produce depressioni, solitudini, devastazioni dell’anima e del fisico, nessun problema, sostengono gli stessi accaniti sostenitori dei “diritti civili del terzo millennio”: prima o poi si muore e, quando ci si avvicina anche lontanamente al grande passo, si può sempre decidere di accelerare con scorciatoie che annientano ogni percorso naturale verso la fine della vita. L’eutanasia è cosa ben diversa dall’accanimento terapeutico, ma entrambi hanno un vizio di fabbrica ovvero pretendono di imporre alla vita dell’uomo tempi e modi diversi da quelli naturali. Accompagnare il corso di un’esistenza con la medicina e con le positive scoperte che essa prevede è cosa buona; concepire la vita come qualcosa in cui ci si può autodeterminare totalmente, senza tenere conto del contesto sociale in cui si è inseriti, invece è una conseguenza dell’individualismo.
Direttore, mi rendo conto che questo tentativo di tradurre su un terreno empirico certe tesi teoriche è un po’ forzato, rischiando di rivelarsi a tratti perfino superficiale, ma credo sia stato utile per intuire come dalla nascita alla morte, con tutto quello che ci sta in mezzo, ci sia un tentativo ahimè spesso riuscito di instillare una mentalità libertaria ed egoista – secondo la quale il bene e il male non esistono più e tutto è relativo – che si scontra con quella che sarebbe la naturale aspirazione dell’uomo, ovvero il dono di sé all’altro, l’incontro libero e liberante, l’amore per il prossimo, l’io che insieme a tanti altri io fa una comunità solidale in grado di ruotare non intorno alla vanagloria di uno solo bensì alla ricerca del bene comune.
Questo dovrebbe essere anche il compito della Politica: orientare, dare ordine, spingere l’uomo verso un percorso di svolgimento della propria personalità che sfoci non nella mera affermazione di sé ma in una dinamica relazionale che, attraverso l’impegno per il bene di tutti, realizzi anche se stessi. E invece la politica non lo fa più o lo fa in rari casi o ancora lo fa con uomini illuminati che però vengono rapidamente messi tra parentesi e poi accantonati del tutto. Anzi, spesso la politica asseconda questa deriva come un’evoluzione positiva della società, come un fatto quasi ineludibile, scientifico. Ed anzi riproduce i disordini da cui dovrebbe proteggerci, le divisioni di fronte alle quali dovrebbe agire per creare unità, gli egoismi da cui dovrebbe aiutare a liberarci.
Eppure è proprio la scienza a venirci incontro per aiutarci a dimostrare che è l’unità, a partire dalle parti più piccole, ad essere determinante per la felicità di una persona e di una comunità: se in un corpo umano si “guasta” una cellula, che poi contagia le altre, e queste cellule malate generano un tumore, è paradossale pretendere che il corpo umano sia tonico e stia in piedi. Trasliamo il concetto all’umanità e supponiamo che le cellule siamo noi o le nostre famiglie, troppo spesso lacerate da divisioni e sofferenze. E immaginiamo che il corpo sia una Nazione o il mondo. Come fa ad essere in salute un corpo malato alla base? Come fa a non produrre guerre e violenze un pianeta che ne è infestato nelle fondamenta?
Forse, a volte, sarebbe il caso di dare anche una lettura di questo tipo alla crisi che stiamo vivendo. Una crisi finanziaria che però viene da più lontano e riproduce in campo economico le stesse divisioni, sporcizie, paure, egoismi che si annidano nel cuore dell’uomo dei nostri tempi.
Oltre a parlare di crescita, dovremmo tornare a parlare della vera natura dell’uomo. Dei suoi bisogni reali. Più che disquisire sui “nuovi diritti civili”, dovremmo tornare a parlare di “vecchi diritti e vecchi doveri” i quali, se vissuti in modo serio, consentono ad ogni persona di realizzarsi insieme alle altre. Le persone più felici che conosco . e per fortuna ce ne sono ancora tante vivono nell’ordine interiore e relazionale, applicando le leggi dello Stato ma anzitutto rispondendo alla legge naturale che trova concretezza nelle parole di La Pira: una famiglia deve avere una casa dove abitare, una fabbrica dove lavorare, una scuola dove crescere i figli, un ospedale dove curarsi e una chiesa dove pregare il proprio Dio. A questo proposito, dovremmo ricominciare a collegare il concetto di unità della famiglia umana con quello di unità della famiglia domestica.
Ciò detto, è opportuno precisare che di fronte a certe situazioni di sofferenza e di disagio, quali sono quelle sopra descritte, è necessario un approccio di amore e di comprensione ed è giusto pretendere che la Chiesa, come Gesù nel Vangelo, vi dedichi un’attenzione doppia. A tal proposito, credo che non sia da trascurare il dibattito su una pastorale per i divorziati, così come per le persone che manifestano una tendenza all’omosessualità e via dicendo. Ma questo non vuol dire che si debba rinunciare a chiamare le cose con il loro nome: è doveroso distinguere ciò che fa male da ciò che fa bene ed è vero amore come fanno due genitori con i propri figli avere il coraggio di dirlo apertamente e di pronunciare dei no.
C’è chi per sostenere le proprie tesi cita la Bibbia, a mio avviso arrampicandosi un po’ sugli specchi. Vorrei concludere anche io con il Vangelo: “Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi. Se una casa è divisa in se stessa, quella casa non può reggersi” (Mc 3, vv. 24-25). Il regno e la casa. Il mondo e la famiglia. Il collegamento di due concetti che ho appena citato. Io non credo che per risolvere i problemi occorrano le guerre sante, che non fanno mai bene, ma un po’ di verità con se stessi, beh, quella sì. E, a proposito di Bibbia, senza bisogno di sfogliare troppe pagine, sarebbe sufficiente leggere la Genesi per capire la natura dell’uomo e della donna. Soprattutto, anche in mancanza della Bibbia, basterebbe dare un occhio ai fatti, alla realtà umana e discernere ciò che davvero realizza l’uomo da ciò che lo danna, non tanto nei Cieli (non spetta a noi il giudizio), quanto qui sulla terra in una infelicità che è la prigionia del proprio egoismo.
Riccardo Clementi