«Cattolici protagonisti», repliche all’intervento del professor De Marco
La pagina delle lettere questa settimana è dedicata interamente alle repliche all’intervento del prof. Pietro De Marco, docente di Sociologia della religione all’Università di Firenze, circa l’iniziativa «Cattolici protagonisti nella Toscana di oggi». Tra quelle arrivate, ne pubblichiamo due, che affrontano aspetti diversi e riassumono in qualche modo anche le altre.
Non è finita la stagione del laicato organizzato
Caro direttore, nel suo contributo pubblicato su «Toscana oggi» il 25 marzo Pietro De Marco liquida sbrigativamente la stagione del laicato organizzato, riconducendola in modo decisamente riduttivo all’ispirazione dossettiana e giudicando inadeguata la risposta da essa fornita, con la «scelta religiosa», alla crisi del ’68 ed alla secolarizzazione della società italiana negli anni ’70. Mi pare una valutazione non solo ingenerosa nei confronti della grande passione per la Chiesa e per l’uomo che ha animato l’attività di uomini come Lazzati, Bachelet, Monticone, Casavola, ma anche profondamente sbagliata.
Non mancò, è vero, chi teorizzò in quegli anni (magari richiamandosi a Dossetti) una diaspora non solo politica ma culturale: ma l’Azione cattolica della «scelta religiosa» ed altri movimenti organizzati seppero riproporre in forme nuove un impegno associativo che non metteva affatto tra parentesi l’ispirazione cristiana; e col loro apporto negli anni ’70 la Chiesa italiana seppe elaborare piani pastorali fondati sulla centralità dell’evangelizzazione. La dottrina sociale della Chiesa trovò oppositori ma non scomparve affatto, negli anni ’70-80, dall’orizzonte dei cattolici italiani: l’impatto della «Populorum progressio» e delle successive encicliche sulla riflessione di associazioni come l’Azione cattolica e di settori del partito di ispirazione cristiana mi pare innegabile (ricordo tanti incontri dedicati all’impegno dei laici nella società ed ai problemi del Terzo mondo). Mi sembra piuttosto che negli ultimi anni le resistenze al pensiero sociale della Chiesa (da ultimo alla «Caritas in veritate» ed al documento elaborato dalla Commissione pontificia «Iustitia et pax») provengano da quel cattolicesimo conservatore (di cui è espressione ad es. Novak) che rinuncia ad ogni forma di critica nei confronti dei poteri economico-finanziari (responsabili della crisi in cui ci troviamo) e prospetta scelte politiche dei cattolici con riferimento pressoché esclusivo ai cosiddetti «principi non negoziabili».
Il laicato cattolico degli anni ’80 era certamente troppo litigioso al proprio interno, e non si mostrò forse capace di riconoscere tempestivamente la gravità della «questione antropologica»; ma non era affatto «una costellazione disorientata e incontrollabile». Se da un lato va riconosciuto al card. Ruini il merito di aver sottoposto all’attenzione di tutti la questione antropologica e di aver delineato il Progetto culturale, dall’altro mi sembra che quella stagione della CEI (di cui oggi percepiamo sempre più certi limiti) abbia mortificato, al di là dell’enfatizzazione dei movimenti guidati da leaders carismatici, il protagonismo dei laici e favorito il riemergere di forme di clericalismo, come hanno giustamente denunziato negli ultimi tempi Fulvio De Giorgi, Paola Bignardi, Giorgio Campanini. A questo neoclericalismo si è accompagnato un atteggiamento di acquiescenza nei confronti del berlusconismo, motivato dalla ricerca di un sostegno politico e legislativo alle «opere» cattoliche ed ai «principi non negoziabili»: al di là di qualche innegabile vantaggio contingente (la legge 40, lo stop a proposte in direzione dell’eutanasia, le agevolazioni fiscali per le attività della Chiesa, di cui non nego affatto la legittimità), ciò ha comportato un affievolimento della tensione morale nella vita politica e la rinuncia di fatto, nelle scelte politiche della maggioranza dei cattolici (non più orientati da associazioni che si muovevano nella linea del Concilio), a quella prospettiva del bene comune che risultava invece centrale nella dottrina sociale della Chiesa, e che non può essere sbrigativamente etichettata come «statalista».
Certamente un buon politico cattolico deve essere una persona competente, non soltanto un buon cristiano che prega spesso: ma, come ci hanno insegnato Maritain e Lazzati, una forte spiritualità laicale, alimentata da precisi percorsi associativi, è un presupposto imprescindibile per una buona politica che si ispiri al bene comune e non ad interessi particolari o a ideologie estranee; mentre un cattolico isolato viene facilmente risucchiato dalle logiche dei poteri forti.
La stagione del laicato organizzato non è quindi finita, anche se bisogna continuamente ricalibrarne il pensiero e l’azione in rapporto ai «segni dei tempi»: in un contesto storico segnato da una presa di coscienza sempre più forte dei limiti di una politica per troppo tempo subalterna nei confronti dei grandi poteri economico-finanziari, e di una gestione troppo clericale della Chiesa, i laici cattolici italiani devono ritrovare gli strumenti per far sentire la loro voce nella Chiesa e ricominciare, dopo vent’anni di latitanza che hanno giocato a favore del berlusconismo, ad elaborare una cultura politica cristianamente ispirata (anche se certamente non più proponibile nei termini del «partito unico dei cattolici»). In questa direzione il movimento di cui faccio parte (il MEIC) ha elaborato il «Progetto Camaldoli» per promuovere una nuova maturità del laicato: l’anniversario ormai vicino del «Codice di Camaldoli» non può significare una riproposizione meccanica di un modello di presenza politica almeno in parte anacronistico, ma deve rappresentare l’occasione per ritrovare la tensione spirituale ed etico-politica che animava gli uomini che lo elaborarono.
Caro direttore, nutro un certo affetto personale per il prof. Pietro De Marco. Quando ero studente universitario nella Facoltà di Lettere di Firenze, ho seguito un corso del prof. Ranchetti sulle encicliche sociali di Leone XIII. L’assistente che guidava il seminario su queste encicliche era il prof. De Marco, allora chiaramente orientato a sinistra. In quel seminario presi un voto finale importante: 30 e lode.
Così come in un altro esame di Storia della Chiesa sempre con il prof. Ranchetti presi un altro 30 e lode: questa volta era uno studio sul fenomeno del modernismo nella Chiesa cattolica dei primi del ‘900. Ero già segretario provinciale del movimento giovanile della Dc. Quindi nessuna polemica accademica né con il prof. Ranchetti, né tantomeno con il suo assistente. Ma l’articolo del prof. De Marco pubblicato sul numero 12 di Toscana Oggi «Finita la stagione dei laicati organizzati» merita alcune precisazioni. La prima: il prof. De Marco esprime un giudizio negativo su Don Giuseppe Dossetti, già vicesegretario nazionale della Dc e già vicario generale della Diocesi di Bologna durante l’episcopato del cardinale Lercaro. De Marco vuol dimostrare che Dossetti era il mallevadore di una politica cattolica filocomunista. De Marco dimentica che nel 1956 Dossetti si candidò a sindaco di Bologna della Dc contro il sindaco «rosso» Dozza. Dossetti perse le elezioni e si fece prete. Giorgio La Pira espresse un giudizio categorico su Giuseppe Dossetti: «era meglio se si faceva prima prete, questa era la sua vera missione». Quindi la differenziazione tra Dossetti e Giorgio La Pira, che pure era di lui un amico fraterno, è di quasi sessanta anni fa.
Seconda considerazione: secondo De Marco, la Dc ha «fallito» nella sua lunga parabola politica la sua testimonianza cristiana. Certamente ci sono stati errori ed omissioni. Ma nessuno può scordarsi, neppure il bravo prof. De Marco, che la Dc per quasi cinquanta anni ha battuto in elezioni democratiche il partito comunista più forte dell’Occidente. Se gli pare poca cosa, il prof. De Marco potrebbe chiedere un parere all’Arcivescovo emerito di Praga, cardinale Miloslav Vlk. Terza considerazione: e qui faccio riferimento a San Paolo apostolo. Si possono spostare anche le montagne ma senza carità è come se non si facesse nulla. Il prof. De Marco dovrebbe tenere ben presente questo insegnamento quando tenta di confrontarsi intellettualmente, con coloro che hanno fatto politica come democratici cristiani. Milioni di persone che hanno cercato di fare se non il meglio, il meno peggio possibile. Senza imporre con la forza nessuna delle loro idee. Aggiungo un’ultima considerazione storica: Dossetti, molto antipatico al caro De Marco, voleva costruire in Italia una società cristiana contestando a De Gasperi nel 1948, l’apertura governativa ai socialdemocratici, repubblicani e liberali. Ebbene, nei fatti, a quella politica proposta dal Dossetti si opposero De Gasperi, Attilio Piccioni, Guido Gonella, Giorgio La Pira, Igino Giordani, Paolo Emilio Taviani, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Amintore Fanfani, Mariano Rumor, Flaminio Piccoli, Carlo Donat Cattin, Giovanni Galloni, Giovanni Marcora, Arnaldo Forlani. Tutti cattolici, quasi tutti formatisi nell’Azione cattolica o nella Fuci, impegnati in politica e benemeriti, per le circostanze storiche della guerra fredda tra occidente democratico e oriente europeo comunista, della Patria e della Chiesa. Spero, con sincero affetto, che il prof. De Marco se ne faccia una ragione nel giudicare la storia passata.
Per quanto riguarda gli ultimi venti anni della storia d’Italia, dal 1992 al 2012, sono perfettamente d’accordo, con quanto ha detto nell’incontro dei cattolici toscani impegnati nel sociale, del 17 marzo 2012, a Firenze, mons. Giovanni Santucci, vescovo di Massa Carrara e Pontremoli. Infine: la strada futura per i cattolici in politica è sicuramente in salita, ma per camminare più leggeri, è necessario evitare errori di valutazioni sul passato che possono essere pregiudizievoli per il futuro impegno di quella «politicità cattolica diffusa» evocata nel suo articolo dal prof. De Marco.
Giovanni Pallanti
Se chiedo un contributo non mi piace poi fare il censore, non lo trovo giusto. Censurare qualcuno significa, a mio giudizio, mancanza di rispetto nei confronti del diretto interessato e scarsa fiducia nell’intelligenza dei lettori. Ciò significa anche che mi prendo la responsabilità di quanto pubblicato, compreso quanto scritto dal prof. Pietro De Marco, pur non condividendolo. Non mi trincero dunque dietro a niente. Dico solo che il punto di partenza del giornale era corretto: chiedere a due intellettuali cattolici toscani (due docenti universitari, culturalmente su posizioni diverse, che fossero presenti all’incontro del 17 marzo) un commento su una iniziativa e una materia che non sono dogmi di fede. L’intento era quello di dare un contributo alla riflessione, al dialogo, se vogliamo anche a un dibattito vivace, purché proficuo, come di recente credo sia stato quello aperto (con coraggio, va riconosciuto) sui valori non negoziabili. Questa volta così non è stato e questo mi addolora perché questo giornale ha sempre cercato e cerca di costruire, mai di distruggere. Pensavamo anche di aiutare a guardare avanti, nella prospettiva di un futuro ruolo dei cattolici qui in Toscana. Invece ci siamo ritrovati a rinvangare il passato e per di più nazionale. A questo punto non ci resta che prendere atto della positività dell’incontro del 17 marzo in sé (così come in quella circostanza abbiamo preso nuovamente atto dei positivi risultati dell’ultima Settimana sociale di Reggio Calabria) e in attesa di ulteriori valutazioni (anche da parte dei vescovi toscani) cercare davvero di guardare avanti.
Andrea Fagioli