Cattolici e Banche armate

Caro Direttore,non so di chi sia la responsabilità della presenza di un articolo, non firmato, apparso su una pagina del settimanale del 16 marzo scorso. Quello che so per certo è che questo articolo titolato: «Una Banca di vantaggi con la convenzione Re» non doveva comparire su di un giornale cattolico quale è il nostro, sempre attento alle problematiche legate alla guerra e al commercio di anni. Nell’articolo si opera una palese campagna pubblicitaria a favore di alcuni reprensibili Istituti di Credito, si chiede inoltre di aderire alla Convenzione Bancaria Re adducendo motivazioni poco chiare, o quantomeno discutibili, si constata ancora una volta la diffusa incapacità a mostrare la connessione fra le conseguenze relative a scelte individuali in materia economica e la rovinosa attività di consolidate strutture di peccato. La Convenzione Bancaria a cui si fa riferimento nell’articolo, è un accordo tra il Gruppo Re e alcuni Istituti di Credito, circa la metà dei quali (precisamente 6 su 13) compaiono nell’elenco delle cosiddette «banche armate», cioè degli Istituti di Credito che finanziano o quanto meno agevolano la vendita di armi italiane all’estero. Elenco reso pubblico in virtù della legge 185 del 1990 (vedi il sito www.banchearmate.it). Anche se si tratta di operazioni consentite dalla legge e per questo autorizzate, il fatto non può esimerci dal prendere comunque le distanze da tale commercio. Sono i nostri risparmi e noi abbiamo il dovere morale di controllare i nostri investimenti come lo è ancor più quello di disinvestire prontamente se si ha certezza di un uso immorale.Non credo si possa conciliare l’ultima, forte, presa di posizione dei Vescovi toscani contro la guerra e le spese per le armi con il vostro esplicito invito a servirsi di siffatti Istituti bancari.

Il secondo motivo di dissenso è sulle motivazione addotte. Il lettore viene invitato a servirsi di questa Convenzione perché così, cito letteralmente: «si risparmia tempo», le condizioni di profitto sono più «vantaggiose», ci si serve di banche «sensibili (sic!) al mondo della Chiesa e alle sue necessità specifiche» (ma le necessità specifiche della Chiesa sono queste?).

Perché, come Settimanale di informazione, non ragguagliate i lettori su quelle possibilità di investimento e di risparmio eticamente conciliabili con il Vangelo, con la ricerca del Bene comune, con la promozione alla pace?

Il singolo credente, in quanto cittadino, deve essere messo in grado di assumersi le proprie responsabilità, le sole che abbiano il potere di produrre cambiamenti nel sistema, anche a partire da scelte di natura economica. Possibile che per il credente non ci sia altro strumento che quello di ricorrere all’elemosina e all’assistenza benefica?don Gian Pietro GuerriniPitigliano (Gr) Prima di tutto una doverosa precisazione. Quello a cui si fa riferimento non era un articolo ma un messaggio pubblicitario a sostegno di una campagna che la Banca Re sta facendo attraverso molti organi di stampa di ispirazione cattolica. Per questo era stato collocato al di fuori del «contenitore» degli articoli redazionali. Nessuna sorpresa dunque se il tipo di linguaggio usato era quello tipico dei messaggi pubblicitari.Detto questo non voglio però eludere le sue obiezioni. Sono ovviamente a conoscenza che da alcuni anni è in corso una «Campagna di pressione alle banche armate» promossa da tre realtà missionarie di tutto rispetto come «Missione oggi», «Mosaico di pace» e «Nigrizia» e alla quale hanno poi aderito diverse realtà associative. «Spesso le banche – si legge nel “manifesto” della campagna – si rivolgono alle parrocchie offrendo condizioni particolarmente favorevoli. Crediamo sia moralmente doveroso chiederci come e dove investono questi istituti bancari. Se è vero che il sistema economico, le “strutture di peccato” si basano sul consenso dei singoli, è importante riscoprire le responsabilità che ognuno ha nell’appoggiare più o meno esplicitamente tale sistema. Non possiamo accettare il criterio che avendo dei soldi li dobbiamo far fruttare al meglio senza interrogarci sul modo».Fin qui sono perfettamente d’accordo. Trovo giusto che chi non desidera che i propri soldi servano a finanziare qualcosa di non gradito chieda assicurazioni in tal senso alla propria banca e, se non ottiene risposte esaurienti, chiuda il conto e si rivolga ad altre realtà. Ben vengano dunque la vigilanza e la «pressione» verso le banche. Possiamo però procedere ad una forma di boicottaggio sistematico (nel nostro caso pubblicitario) verso quegli istituti che del tutto legalmente per la legge italiana (perché è bene ripeterlo qui si parla di esportazioni legali e non di quelle clandestine) favoriscono le esportazioni di armamenti? Mi chiedo inoltre: quanti altri modi ha una banca di utilizzare male i miei soldi? Se, per esempio, li usa per strangolare attività produttive o commerciali per poi impadronirsene, fa qualcosa di più accettabile? E in un’epoca di globalizzazione economica, chi mi assicura che una Banca dichiari certe cose e poi faccia fare il «lavoro sporco» a soggetti che rimangono nell’ombra o faccia, comunque, tutta una serie di operazioni finanziarie parimenti nocive al bene comune del commercio legale delle armi? Credo che proprio per questi interrogativi insolubili sia nata la «Banca etica», della quale abbiamo dato sempre ampia informazione sul settimanale.Lo spazio concesso da questa rubrica non permette di addentrarci oltre nel ragionamento. Accenno però ad altro aspetto che meriterebbe una lunga riflessione e sul quale francamente non ho certezze: dato per assodato che non si debbano vendere a chi è in guerra o a regimi dittatoriali e che non tutti gli armamenti si possono porre sullo stesso piano (un mitra non è come l’antrace!) è giusto che il nostro paese rinunci completamente alla produzione delle armi? È un tema sul quale non mi dispiacerebbe raccogliere le opinioni dei nostri lettori.

Il sito della campagna contro le banche armate