Art. 18, una risposta troppo diplomatica
Caro Direttore,
ho letto sul numero 7 del 17 febbraio la sua risposta alle lettere che manifestavano dissenso rispetto alla prospettiva della modifica dell’art.18 dello statuto dei lavoratori, quello cioè che regola le norme sui licenziamenti individuali e, francamente, la trovo troppo diplomatica rispetto al problema ed al contesto in cui si anima il dibattito.
La libertà di licenziamento si inquadra in un contesto nel quale la persona all’interno del ciclo produttivo è sempre più assimilata ad uno qualsiasi degli altri strumenti (materie prime, finanziamenti, macchinari, pubblicità etc.); per rendere più incisivo questo concetto, è in uso indicare i problemi del personale come quelli delle «risorse umane».
Il lavoro è un diritto fondamentale della persona ed, in quanto tale, deve essere sottratto alla rigida e cinica logica del mercato; tutta la dottrina sociale della Chiesa ribadisce questo concetto. I valori non possono essere assoggettati ad una logica speculativa, quale in effetti è la proposta di liberalizzare i licenziamenti senza giusta causa, per aumentare l’occupazione; da un punto di vista statistico sul numero degli occupati, presumibilmente si avrebbe un esito positivo, ma occorrerebbe ignorare i disagi, le ansietà e talvolta il dramma di coloro che perderebbero il posto di lavoro in questa sorta di scambio, moralmente inaccettabile.
Se il lavoro è un diritto fondamentale, il licenziamento non può essere considerato come uno strumento ordinario per la gestione dell’impresa, perché questo è l’obbiettivo, neppure nascosto, dei sostenitori di questa proposta; le cautele, l’apparente limitatezza del numero delle persone coinvolte, il carattere sperimentale e gli effetti positivi che produrrebbe, sono il mezzo per mimetizzare il risultato finale.
In questo contesto affermare, come ho sentito fare da un commentatore di una emittente privata di ispirazione cattolica, che la difesa in atto da parte del sindacato dell’art.18 è una difesa a vantaggio di pochi tutelati, mentre la maggioranza dei lavoratori lavora in aziende esonerate dalla tutela prevista dallo statuto dei lavoratori, significa attribuire la responsabilità del mantenimento di una evidente diseguaglianza ad una volontà corporativa del sindacato che non c’è mai stata, mentre la verità deve essere ricercata nella mancanza di condizioni oggettive che hanno impedito la realizzazione dell’estensione della tutela a tutti i lavoratori.
Il vero problema è quello di conciliare, e ciò è possibile, la necessaria flessibilità del sistema produttivo, senza aumentare in modo intollerabile la precarietà dell’occupazione, il che, oltre ad essere fonte di disagio sociale, rende poco credibile la tutela e la promozione di alcuni fondamentali istituti sociali, quali la famiglia. La costituzione della famiglia e la stessa procreazione responsabile sono pesantemente condizionati dalla stabilità e sicurezza del lavoro non solo per l’acquisto dei beni di sostentamento, ma anche per i necessari ritmi di vita che solo la stabilità e sicurezza del lavoro possono assicurare.
Il ritiro del provvedimento, da parte del governo, risolverebbe tutti i problemi? Certamente no, poiché questo rappresenta uno dei tanti piccoli tasselli ( e forse neanche il più importante) della costruzione di una società sempre più materialistica e poco sensibile ai valori della persona. Quello che mi lascia perplesso, è il fatto che anche nel mondo cattolico, parte della gerarchia compresa, non si avverta l’importanza che certi segni hanno: questi segni dovrebbero indurci ad intervenire per sollecitare l’approccio ai problemi con riflessioni profonde, invece che limitarsi a rilevare di essere di fronte a dispute ideologiche.
Le lettere precedenti su questo argomento: