Isaia, il profeta del «Dio con noi»

DI BENITO MARCONCINIIl più grande tra i profeti scrittori nasce intorno al 760 a.C. a Gerusalemme, dove ventenne riceve da Dio in una visione l’incarico di indicare ai concittadini la via della salvezza come attesta, verso la fine dell’epoca veterotestamentaria, il Siracide: «Il Santo li ascoltò e li salvò per mezzo di Isaia» (Sir 48,20). A questa salvezza fanno riferimento il nome Isaia che significa «JHWH salva» e quelli dei familiari, l’anonima moglie, definita «la profetessa» (Is 8,3) e «i due figli che Dio mi ha dato, Še’ar-yašûb» («un resto ritornerà») per la speranza della conversione di una parte del popolo e Maher-šalal- haš-baz («preda veloce – saccheggio celere») in riferimento alla liberazione della città assediata. L’obiettivo della salvezza, tematica presente una quarantina di volte, spiega la straordinaria diffusione del libro ritrovato intero nella prima grotta di Qumran, presso il Mar Morto, in un rotolo di oltre sette metri databile tra il secondo e il primo secolo a.C., e in un altro, criticamente meno valido, del tempo della guerra giudaica terminata con la distruzione della città nel 70 d.C.: frammenti di una dozzina di rotoli sottolineano l’importanza della profezia isaiana.

Anche Gesù ricorre ad Isaia per legittimare la propria missione (Is 61,1-3), mentre gli scritti neotestamentari lo citano per oltre trecento volte: è comprensibile pertanto come in questo Avvento vi attingano sempre la Liturgia Domenicale e la Liturgia delle Ore e per due settimane quella feriale.

La salvezza annunciata da Isaia giunge al credente nella conversione, nella calma e nell’abbandono confidente (Is 30,15), attraverso l’incisività di uno stile che ha permesso di definire il profeta «Dante della Bibbia», e mediante il linguaggio della debolezza. Isaia invita infatti a preferire le acque di Siloe che scorrono piano a quelle impetuose e abbondanti dell’Eufrate (8,6-7), ad attendersi il consolidamento del trono di Gerusalemme da un ramoscello che spunterà dalla radice di Iesse (11,1), a sperare in una pace tra «il lupo e l’agnello» mediata da un bambino, apportatore di giustizia per i miseri, ripieno dello Spirito (11,2) e capace di donare agli uomini una possibilità di salvezza, al di fuori di ogni automatismo.

I ripetuti annunci di salvezza si concentrano su di un bambino «nato per noi» (Is 9,5), ponendo un rapporto tra il figlio del re Acaz e l’atteso Messia. Come Ezechia, nato da «giovane donna» (Is 7,14) Abia, la moglie del re Acaz, in una situazione tragica fu segno della presenza divina («Emmanuele», o Dio con noi), così e tanto più il figlio della vergine Maria sarà per tutti gli uomini segno di salvezza (Gesù) ed Emmanuele: è l’evangelista Matteo (1,22-23) illuminato dallo Spirito a scoprire nel pio Ezechia l’annuncio (il «tipo») del salvatore Gesù.