«Comunque la schiena non mi faceva male, quando salivo a cavallo; anzi, ero capace di saltarci sopra senza toccare le staffe, con un salto ben calcolato. Ero già diciottenne e mi bruciava il fatto che a Firenze, tra i miei coetanei, c’era chi già da tre aveva ottenuto di portar gli sproni dorati di cavaliere. Invece in famiglia mi ripetevano che dovevo ringraziare Iddio per non aver ancora conseguito quella distinzione. Proprio quell’anno era stato proclamato il “comune delle Arti”, e i popolani non avevano in gran simpatia la gente cha andava in giro col mantello foderato di vaio e il pomo della spada dorato. Lui lo vidi nel battistero di San Giovanni. Era stato chiamato a coprire il ruolo di Capitano del Popolo. Certo, veniva da Rimini, da quei guelfacci duri dei Malatesta. Ma aveva un’aria gentile, sorrideva…Lo sentii anche scherzare con messer Betto de’ Brunelleschi, che con un po’ d’ironia lo ammirava per i suoi bei capelli biondi, così fini…».Il vento d’inverno ululava, attraverso le finestre e i corridoi del castello di Romena. I lupi erano già scesi dal Pratomagno, avevano assalito due o tre ovili, bisognava organizzare una caccia contro di loro; e il signore del luogo, il conte Guido da Battifolle dei conti Guidi, non ne aveva nessuna voglia. Ai suoi contadini non poteva dirlo, ma gli piacevano i lupi: erano guerrieri, come lui; e affamati, come quel fiorentino smagrito, olivastro, dal volto pallido e dal naso adunco, ch’era arrivato dalla Lunigiana con una lettera del conte Moroello Malaspina, un famiglio zoppicante e sfaticato e due muli nei cui basti c’erano soltanto libri, carte, penne e vasetti di terracotta pieni d’inchiostro.«Perché, messer Dante, che cosa avevano i capelli del conte Paolo? Ai fiorentini si dice che piacciano e capelli curati…», e sollevò il labbro sinistro, in un sorrisetto un po’ sprezzante.«Anche voi con questa storia dei fiorentini buoni soltanto a pettinarsi e vigliacchi in battaglia, messer Guido? Ditelo pure, che la mia città è piena di gente effemminata, di uomini con abitudini da donne!».«Beh, che volete, l’ho sentito dire. Ma Paolo Malatesta?».«Doveva averla sentita anche lui quella storia. Ma rispose cortesemente a Betto, scherzando sullo stesso nome della sua casata e facendogli notare che, quanto a lui, con quella capigliatura non aveva certo una mala testa…».Un corno da caccia risuonò lontano. Era il segnale della fine della caccia. Il cielo annerisce presto, a dicembre: per quella sera i lupi sarebbero tornato nelle loro tane, dai loro cuccioli.Messer Guido si alzò dal suo scranno di legno di querce coperto da una pelle d’orso non conciata. Andò verso un ripostiglio ricavato nel muro accanto al camino, il cui fuoco ebbe cura di attizzare con un paio di lunghe molle, e prese un grosso libro per porgerlo all’Alighieri. «È questo?».L’altro lo aprì con cura. Era un bel codice cartaceo, non di lussuosa pergamena; non aveva illustrazioni, ma soltanto sobri capilettere rossi e blu.«No, messere. Questo è il romanzo delle gesta di messer Tristano e dei suoi amori con Isotta la Bionda, la bella consorte di re Marco di Cornovaglia…».Il conte stavolta non poté trattenere una bella, sonora risata: «Ma guarda un po’, di Cornovaglia! Lo sapevo io!».«Mio bel signore – gli replicò Dante -, lo so che alla Santa Chiesa ciò non paioce affatto, ma sono queste le regole dell’Amor Cortese: il vero grande amore è sempre fuori dai legami delle nozze».«Sì, comunque codesto libro me lo sono fatto leggere e ne so la storia. Re Marco vuole sposare la bella Isotta ma non può o non vuol fare il viaggio per andarsela a prendere; allora spedisce il bel Tristano, di cui era zio, per fare un matrimonio di procura. Ma succede qualche cosa, non è difficile immaginare…certo, la colpa è sempre d’un filtro magico. I poverini bevono, s’innamorano e alla fine muoiono tutti. Faccio bene io, che se mi prende la voglia me la faccio con le contadine! Altro che amore eterno».«Comunque, mio bel signore, la storia di Paolo è simile e me l’hanno racontata in Lunigiana, alla corte di messer Moroello. Paolo era fratello di Giovanni Malatesta, il signore di Rimini, un uomo triste e cattivo: era sciancato dalla nascita, anche se tutti dovevano fingere che fosse stato ferito in battaglia. E Paolo, che pure era sposato a sua volta, non ce la fece a non innamorarsi di sua cognata Francesca».«Ma il libro che cercate, che c’entra?»«È un altro romanzo del ciclo di Bretagna, racconta di re Artù…».«Altro celeberrimo cornuto…».«Ve l’ho detto, messere, è l’Amor Cortese. Dunque, questo libro racconta la storia di Lancillotto del Lago e dei suoi amori con la regina Ginevra, la consorte di Artù».Messer Guido si alzò di nuovo, affondò la mano sinistra in una grande coppa di frutta secca che poi si portò golosamente alla bocca. Quindi prese da un altro canto della stanza due coppe fumanti che un servo aveva portato proprio allora e ne porse una a Dante.«Tornerete a Firenze?».Il poeta scosse la testa. «Non ho più amici laggiù: né guelfi né ghibellini, né Bianchi né Neri. Vorrei solo…».Un secco cenno della mano del conte lo dispensò dal continuare. «Non dite altro. Voi avete bisogno di un tetto confortevole, io ho bisogno di uno scriba sapiente che sappia inviare a nome mio le lettere come quella che ho ricevuto da messer Moroello, quella nella quale vi presenta con tanto entusiasmo. È bellissima, sapete. È chiaro che l’avete scritta voi».Dante si sentì avvampare. Era logico, del resto. Da quando i gran signori perdono tempo a scrivere?«Quindi sapete tutto. Sapete del mio progetto. Voglio raccontare un sogno che ho avuto anni fa, il sogno di un viaggio nell’Aldilà in compagnia di Virgilio».«E volete vedere anche il diavolo?».Un istante di esitazione: «…no, messere. Molto di più. Voglio provare a vedere Iddio. In fondo, Cimabue lo ha dipinto. Perché non potrei provarci anch’io, con le parole? Solo, temo di sbagliare la partenza».«E perché?».Dante si portò la coppa alle labbra. Scottava, ma il profumo di vino caldo, di miele e di cannella che essa esalava era inebriante.«A Dio debbo arrivarci. Partirò dal fondo dell’Inferno. E vorrei cominciare proprio da quei due amanti di Rimini, da Paolo e da Francesca, dalla lettura di quel libro di cavalleria, dal loro bacio…».«E dalla loro morte maledetta. Riuscirete a esprimere con forza tutto il vostro orrore dinanzi al peccato di quei due, anche se erano così belli e forse perfino buoni?».Il fiorentino smagrito si trovò per un attimo interdetto davanti a quell’obiezione. Provò, senza troppo entusiasmo, ad accennare a una risposta.«Vedete, messere, la mia idea non somiglia granché a tutti i sogni e alle visioni dell’Aldilà che circolano raccontate nelle nostre piazze o che sono dipinte sui muri delle nostre chiese. Io non voglio impaurire nessuno con le pene dell’Inferno magari per spingere i vivi a far offerte per le anime dei loro defunti. Io non voglio illudere nessuno raccontando che alla fine Dio è buono e ci perdona tutti. Io voglio fare quello che fece un poeta arabo di Toledo, molto tempo fa, che scrisse un libro sul paradiso del Dio dei saraceni, che è anche il nostro. Il mio maestro, ser Brunetto, lo fece tradurre in latino e quando nel 1267 tornò dall’esilio spagnolo – era stato esule anche lui – me lo fece leggere. Lì, i morti parlano: e spiegano ai vivi la natura dei loro peccati, la gerarchia delle punizioni, oppure la gioia della salvezza».Bevve un sorso profondo per darsi coraggio, scottandosi lingua e gola.«Ma c’è qualcosa che non capisco. Dio è infinita giustizia, ma nell’Inferno la pietà è morta. È mio dovere di credente ringraziarLo anche per il Suo rigore. Però, messere, io non sono Lui. Io sono un uomo debole, un povero esule, un peccatore».«E osate dunque disapprovare la divina Giustizia?».«No, messere, come potrei? Ma la Giustizia la lascio a Lui, che è perfetto. Io, da uomo, mi tengo stretta la mia imperfetta virtù, la compassione. Io vorrei confortare Paolo, vorrei dire una parola a Francesca. Non di speranza, è impossibile. Eppure, d’amore sì. Io non mi schiero contro Dio. Però sto con loro».