Lucifero, l’immagine del male
Quella notte del 1313 una tramontana feroce sferzava le mura del castello di Poppi e i lampi rischiaravano a tratti la piana intorno, quella stessa che ventiquattro anni prima aveva assistito allo spettacolo del giovane Durante d’Alighiero detto Dante, a cavallo con gli altri «feditori», che stringeva forte le redini sul pomo della sella per impedire alle mani di tremare di paura. In una notte così, i fantasmi di Campaldino fluttuavano senza dubbio tristi e minacciosi nell’aria: e Dante si agitava sul suo lettuccio in preda all’insonnia. Si era acquietato forse poco prima, un tempo che gli era sembrato eterno: ma lo scoppiar di un tuono lo aveva risvegliato.
Eppure in quei pochi istanti gli era capitato di fare un sogno lunghissimo. L’aveva vista di nuovo, la sua donna, il corpo acerbo fasciato di quella veste rosso sangue avvolta nella quale gli era apparsa, per la seconda volta nel 1283, quand’egli era appena diciottenne. Anche in quell’occasione egli, la notte dopo, l’aveva sognata nuda mangiargli dolcemente e devotamente il cuore.
Era ormai morta da oltre vent’anni, dal giugno del 1290, quella fanciulla ormai diventata moglie di Simone de’ Bardi ora che Dante, da tempo sposato a Gemma di Manetto Donati, la stava sognando di nuovo in quella notte casentinese. E il sogno, che avrebbe potuto essere dolcissimo, lo aveva invece riempito di nuova angoscia per quel sorriso – altre volte fonte di beatitudine – ch’essa, pronunziate poche parole nelle quali lo invitava a dar fuoco e quell’ammasso di carte e di appunti che da anni si trascinava dietro, gli aveva dedicato scomparendo. Un sorriso tristissimo, disperato, dissolto però in un ghigno orribile: ed era su quell’immagine ch’egli si era risvegliato.
Rimase un paio di giorni nella sua stanzetta, chino su quelle carte, inebetito, senza né mangiare né bere. Intanto era giunta la notizia ferale che aveva fatto franare ogni speranza di ritorno a Firenze. Proprio in quella notte, l’infausta notte di san Bartolomeo – la medesima in cui, nel 476, con l’abdicazione di un Augusto tanto giovane da esser definito Augustulus la pars Occidentis dell’impero si era dissolta -, in un piccolo paese verso Siena era morto anche l’imperatore Enrico VII («Arrigo», lo si chiamava a Firenze), forse per febbre malarica, forse di veleno.
Ma che cosa mai significava quel presagio, senza dubbio sfavorevole? Perché proprio nella medesima notte della caduta dell’impero e quindi della morte del sovrano dal quale tanti si aspettavano pace e giustizia (e qualcuno anche vendetta), proprio nelle stesse ore nelle quali Dante stava chiudendo definitivamente le due precedenti Cantiche e stava cominciando a pensare all’avvìo della terza, al Paradiso, egli aveva ricevuto quell’inquietante visione? E in che rapporto stava con le due visioni precedenti, quella del giovane cavaliere e del vecchio monaco?
Solo un uomo, pensò, poteva rispondergli. Chiese licenza quindi ai suoi nobilissimi ospiti e partì ai primi di settembre per un viaggio non lungo però aspro, che attraverso gioghi montani e guadi silvestri di ruscelli in quella stagione magri lo avrebbe condotto di nuovo come una decina di anni prima verso l’Alpe di San Benedetto, dove dalla roccia scaturisce un torrente che la gente del luogo, ironicamente, lo chiama «Acquacheta» a causa di un balzo altissimo, parecchie decine di braccia, ch’esso affronta cadendo quasi in verticale ruggendo di rabbia e biancheggiando di schiuma. Un rumore di tuono: altro che acqua cheta!
Certo, lo spettacolo non si ammira tutto l’anno. Anzi, dura poco: il torrente, che più a valle assume il nome di Montone è in realtà quasi in secca per gran parte dell’anno e solo tra la fine dell’inverno e la primavera gonfia per lo sciogliersi delle nevi. Là, a metà del IX secolo, alcuni monaci benedettini avevano fondato con la benedizione di papa Leone IV un’abbazia che tuttavia circa un secolo e mezzo più tardi venne riformata dal grande san Romualdo, che le aveva imposto la disciplina riformata casentinese – con la veste candida e il costume penitenziale dell’astinenza perpetua e della flagellazione – e che, a monte del monastero nel cui comodo scriptorium Dante avrebbe meditato tre secoli dopo per qualche tempo, aveva fondato un austero silenzioso eremo. A quell’epoca, esso contava un solo ospite.
Legò il cavallo a un albero vicino, si avvicinò lentamente al tugurio di frasche addossato a una piccola grotta e s’inginocchiò sulla soglia: «Santo padre Niceforo, beneditemi perché ho peccato…». Il vecchio dalla lunga barba socchiuse appena gli occhi e chinò leggermente la fronte: «Sei qui per i tre sogni?». Dante si sentì crollare a terra e ringraziò Iddio perché le sue ginocchia erano ben appoggiate sul smantello di foglie ingiallite, al suolo.
«Peccato – continuò il vecchio come parlando a se stesso -; speravo che tu fossi venuto per pregare insieme con me come ti avevo insegnato: la preghiera del Monte Athos, quella del cuore, la santa hèsychia…Capisco invece che tu vuoi limitarti a domandarmi i bassi uffici dell’esorcista»; «Voi siete famoso in tutta la Cristianità per questo, beato padre; ma per la verità ero soltanto venuto a domandarvi il senso di alcuni sogni. Parlandomi di esorcismo, mi avete già risposto. E io sono atterrito, disperato».
«Niente di tutto ciò, figlio mio. Ascolta. Il tuo poema…»; «Come sapete che ne sto scrivendo uno?»; «Bada, non interrompermi. Il tuo poema è distinto in tre cantiche: e tua costante paura è stata, in tutti questi anni, quella di offendere il Signore con la tua superbia e il tuo desiderio di gloria mondana e di vendetta. Ti sei detto ch’era davvero peccaminoso, da parte tua, il volerti sostituire a Dio nello scegliere chi dei tuoi simili condannare all’Inferno, chi assegnare al Purgatorio e chi inviare in Paradiso. Hai chiesto più volte al Signore un segno. E ogni volta, alla vigilia di aprire una delle tre Cantiche, ne hai ricevuto uno: chiaro e coerente, che ti ha impaurito e scoraggiato ma non convinto a metter da parte l’opera».