La lunga preghiera a Maria del poeta in esilio a Verona
È l’alba. Ho meditato per la notte intera, Madre mia e mia diletta Signora, cercando il modo più adatto per aprire una preghiera che avevo e ho in animo di scriverTi come fosse una lettera di un figlio esule e lontano a una Madre buona e sollecita quale Tu sei.
Ed è questa, adesso, la mia condizione a duplice titolo. Oggi, giorno memoriale del Saluto che ricevesti dall’Arcangelo Gabriele il quel ti definì Piena di Grazia, nella mia città si celebra il Capodanno, a quattro giorni di distanza dall’ingresso del sole nella costellazione dell’Ariete e dell’inizio della primavera. È una giornata serena e radiosa: e lo sarebbe anche se stesse piovendo a dirotto. Qui, in questa città sulla riva dell’Adige arcigna e cinta di mura guerriere come una fortezza ma illuminata dalla presenza di monumenti imperiali ancora intatti e imponenti e retta da un signore tanto mite e generoso quanto giusto e severo, la primavera non ha i colori della mia Firenze: ma è dolce e mite quasi allo stesso modo. Qui, vivo sereno e pacifico: ma sono pur sempre un ospite, quindi un esule. Ed esule al tempo stesso, come tutti gli esseri umani finché vivono, sono in quanto pellegrino in questa valle di lacrime che anela alla Patria Celeste anche se il cammino fatto finora lo ha stancato e quello che resta da fare gl’incute paura. Ti prego, tu che sei stata detta Avvocata Nostra, volgi ancora una volta verso di noi i Tuoi occhi misericordiosi, mostraci ancora il frutto benedetto del Tuo corpo virginale, il Tuo Figlio Gesù.
E proteggimi in un modo speciale, Signora, perché come esule figlio di Eva e come cittadino d’una città ingrata e peccaminosa io sono due volte lontano dalla mia patria. Per questo mi rivolgo a te ricordando di continuo quella bella preghiera ch’ebbe a scriverti, più di duecentocinquant’anni or sono, Ademaro di Monteuil santo vescovo di Le Puy quando, all’indomani della vittoriosa conquista di Antiochia da parte dei pellegrini armati provenienti dall’Europa, in una notte come questa scoprì sul suo corpo i segni della peste che lo avrebbe condotto al cospetto di Dio.
E io mi chiedo, signora, se davvero mi restano ancora vent’anni da vivere: se questa sarà le porzione assegnatami, com’è legittimo sperare secondo quella che sembra essere la nostra natura. In vent’anni si può fare molto: vivere, pensare, scrivere, operare, perfino generare altri figli per quanto il nostro vigore sia ormai in declino. Al tempo stesso, come dicevano i nostri antichi, <+corsivob>Ars longa – vita brevis. <+tondob>E io mi chiedo se avrò tempo di terminare quel poema che ho concepito come sacro, chiamando cielo e terra a porvi mano, e che vorrei offrire anzitutto a Dio per Tuo tramite, ma poi anche alla città corrotta e peccatrice che pur amo infinitamente e che vorrei tanto rivedere prima di chiudere questi occhi per riaprirli nell’Eternità.
Non so quanto mi resti, dei vent’anni di vita nei quali tenacemente spero. Stanotte, Signora, il Tuo servo l’Arcangelo Guerriero che ci assiste in battaglia e ci guida nel momento del Trapasso è venuto a visitarmi. Per il breve spazio di alcuni minuti, che mi sono sembrati secoli, ha posato lieve la sua mano guantata di ferro etereo sul mio petto: e quel tocco lievissimo mi è apparso pesante come una montagna, ardente come il fuoco, gelido come la neve eterna delle Alpi che non sono lontane da questa Verona. Mi è parso un avvertimento: un nuovo segno di privilegio. Ma, Signora, non so come interpretarlo. La prossima volta, forse, stringerà il mio cuore.