Dante Alighieri. Genio moderno eppure ancora troppo incompreso
Ce n’è stato uno splendido, di natura astronomica, proprio il 21 dicembre scorso, giorno dell’equinozio d’inverno: la coniunctio magna, cioè la sovrapposizione ottica per gli osservatori terrestri, di Giove con Saturno in cuspide tra le costellazioni del Sagittario e dell’Acquario. Pare fosse proprio quello l’astro che guidò i Magi 2028 anni fa circa (i computatori tardo-latini si sbagliarono di sette-otto anni nel calcolo) dalla Persia alla grotta di Betlemme. Non era una cometa: e per fortuna, dato che secondo le credenze astrologiche la cometa porta iella. Sarà vera? Se non lo è, è ben trovata. Leggetevi I magi e la loro stella dell’iranista Antonio Panaino (San Paolo 2012), che è un gran bel libro: c’imparerete un sacco di cose, utili anche per il presepio.
Quanto all’anno che verrà, anzi che sta venendo – primo del secondo decennio del secolo -, esso è già occupato dalla frondosa corona di lauro, dal gran naso aquilino e dal mento ossuto e puntuto dell’Altissimo Poeta: e nelle librerie furoreggia il libro, documentatissimo e divertentissimo, di Alessandro Barbero, Dante (Laterza 2020), che potete anche non leggere: ma solo se siete decisi a farvi del male.
Ma già si comincia a intendere, in lontananza, il brontolar della tempesta polemica che magari scoppierà violenta fra qualche mese sui giornali e su tutti i possibili media: sì, va bene, c’è stato l’anno di Leonardo da Vinci, ora c’è quello di Dante (e in Francia anche il terzo centenario della morte di Napoleone), poi arriveranno Puccini, e poi l’Ariosto, e poi chissacchì…
Insomma: non s’è fatto che chiacchierare per anni, nel secolo scorso, di nuovi schemi interpretativi, di nuova storia, di scienze umane, di storia che guarda al futuro: e invece eccoci ancora qui, nel III millennio, a discettare di date, di eventi, di personaggi, di protagonisti, come tanti accademici crociani o peggio tanti personaggi di un salotto del conte Tolstoj. E svecchiamoci, che diamine! Le nostre future sfide sono la telematica e la genetica, abbiamo ripreso le esplorazioni spaziali, ma le nostre scuole son sempre lì a baloccarsi con gli anniversari e le dinastie, magari con in più una spolverata di Resistenza…. Ci arrivano addosso dei disgraziati dall’Asia e dall’Africa, eppure loro a colpi di smartphone e di tv su di noi hanno imparato tanto mentre noi di loro non sappiamo nulla! Quando fra trenta-quarant’anni la Cina sarà la superleader del mondo e gli executive-men dagli occhi a mandorla ma con abiti più inappuntabili dei nostri ci snoccioleranno addosso in un basic English molto migliore del nostro i loro Confucio, i loro Lao-Tze, i loro cinquemila secoli di ordinata storia del mondo, noi con che cosa gli replicheremo, con i Mille di Garibaldi o con Voglio una vita spericolata di Vasco Rossi?
E invece, no. È arrivato l’anno di Leonardo e giù tutti con i modellini degli aerei e dei sottomarini di legno, bambini e mamme e maestri e professori, e Amadeus e Augias e Angela e Fazio per un anno non ci hanno fatto campare: poi è sparito tutto, scomparso inghiottito, volatilizzato. E ora è in arrivo quest’altro, quello lì imbronciato e perennemente vestito di una sorta di maxicappotto fino ai talloni, il cappuccio in testa, la corona d’alloro e lo sguardo aggrondato. Vi ricordate che cosa pose sulle sue labbra marmoree (quelle del monumento in Santa Croce) il non mai troppo compianto Riccardo Marasco in quel fatidico 4 novembre 1966, quando Firenze veniva sommersa dalle acque non proprio cristalline dell’Arno? «Dante di marmo – poeta divino – mira imbronciato – l’immane casino: – Oh, fiorentini! M’avete esiliato? – Pigliate la merda – che Dio v’ha mandato!».
Diciamo la verità. C’è stato il settecentocinquantesimo anniversario della nascita di Dante, nel 2015: manifestazioni in Quirinale e in Palazzo Vecchio a Firenze, concorsi nelle scuole, discorsi vari. Che cosa ne è restato? Sì e no, qualche pubblicazione scientifica in più di quelle dell’Accademia della Crusca, che leggeranno se va bene in un migliaio di noiosi professori in tutto il mondo….
Sì va bene, ma c’è un’associazione fra l’altro sostenuta dal pubblico danaro, la Dante Alighieri, che difende la nostra lingua in tutti i paesi del pianeta? Certo: e biblioteche, e filarmoniche, e circoli sociali e ricreativi, e società varie (dal bel Canto allo sport alle bocce) intitolate all’Altissimo Poeta. Diciamo la verità: messer Dante ha collaborato come forse nessun altro alla costruzione dell’identità italiana. Per questo è stato un eroe della patria, almeno fra Otto e Novecento; ed è grazie ai suoi scritti in volgare che è nata la lingua italiana, la quale si è esemplificata sul suo idioma anche se non ha dato ascolto alle sue teorie linguistiche: lui un italiano che si modellasse sul parlare dei «fiorentini» (massimo toscani) colti, mica lo voleva. Lui proponeva (in teoria) una specie di esperanto italico, che raccogliesse il «meglio» (si fa per dire) dei quattordici dialetti parlati nella penisola (tanti ne contava) sette ad est e sette ad ovest dell’Appennino.
Insomma, sarà anche il padre della lingua: ma perché parliamo come parlava lui, non come lui avrebbe voluto che noi ci esprimessero. E la politica poi, e il Risorgimento…Tutte le volte che arrivo in treno alla stazione di Trento, e in mezzo alla piazza vedo quel Dante accigliato e minaccioso che guarda sfidante le montagne tirolesi d’intorno… «I tuoi confini, o Italia, son questi!…». Ma l’Alighieri, che ha lasciato scritto «Ahi, serva Italia, di dolore ostello», il riscatto se lo aspettava dai sacri romano-germanici imperatori, e ricordava con devozione il «Buon Barbarossa… di cui dolente ancor Melan ragiona». Lo vollero eroe della patria e del Risorgimento, ma lui per quell’Italia laica e democratica non avrebbe certo mai simpatizzato, lui che scriveva quella lettera V piena di speranza indirizzata ai signori d’Italia affinché si stringessero intorno al loro signore romano-germanico, e quindi la VI agli scellerati fiorentini rei di quei crimini di tradimento e di discordia ch’essi osavano chiamare libertà.
E mi scappa amaramente da ridere quando penso all’alighieresco Mussolini, che alla fine dei suoi giorni fantasticava di ritirarsi in Valtellina dopo aver prelevato da Ravenna la sacrosanta urna delle ceneri di Dante e far quadrato attorno a essa, e morire alla testa di mille giovani Camicie Nere… Fortuna che andò in un altro modo, magari più tragico e grottesco, ma se non altro un po’ meno melodrammatico. Ma che c’entrava lui con la passione patriottarda e le manìe socialoidi di quei succedanei del Risorgimento?
Eppure, era un genio della poesia…Altroché, e anche della stilistica e della retorica. Basta ciò per far di nuovo di lui un eroe, in una società italiana ammalata di analfabetismo di ritorno e dove informatica e telematica precoce hanno fatto in modo che i nostri ragazzi di quattordici anni ormai sanno esprimersi, padroneggiare il lessico italiano e scrivere sì e no al livello al quale mezzo secolo fa arrivavano i ragazzi delle elementari.
Eppure questo segaligno, fegatoso, bigotto pedante, questo fondamentalista cattolico reazionario più mangiapreti d’un anarchico carrarese di fine Ottocento, aveva sul serio una marcia in più, uno che faceva di lui non solo un nostro contemporaneo ma addirittura uno lanciato nel futuro iperpostmoderno. Oggi noialtri cattolici siamo divisi fra neotradizionalisti che a torto o a ragione criticano le aperture del Papa e neomodernisti che a torto o a ragione le ammirano: ebbene, Dante era avanti di qualche anno luce rispetto ad entrambi loro. Sentite questa:
«… tu dicevi: “un uom nasce a la riva
de I’Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;
e tutti i suoi voleri e atti buoni
sono quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.
Muore non battezzato e senza fede:
ov’è questa giustizia che’l condanna?
ov’è la colpa sua, se ei non crede?”»
(Paradiso, XIX, 70-78).
Noi parliamo spesso per analogie, per contrasti, per espressioni astratte e convenzionali: e, quando ci riferiamo all’ «Oriente» e all’ «Occidente», usiamo termini geografici in sé precisi – sebbene, e per definizione, relativi. Si è sempre «a oriente» o «a occidente» di qualcosa – per indicare realtà convenzionali al contrario molto complesse e soggette a una vorticosa dinamica.
Tra le espressioni che noi usiamo più spesso figura il termine Modernità. Si discute su quando cominci la Modernità e se l’Europa moderna, l’Occidente moderno e la Modernità coincidano. Da parte mia, cercando di precisare un pochino meglio, o di essere un pochino meno impreciso, potrei forse dar un parere – da medievista – , a proposito del momento in cui la “Christianitas” latina, il “corpus christianorum” latino ha cominciato a sentirsi Europa. Perché per la Christianitas greca il discorso era evidentemente diverso: e il fatto che dall’Europa moderna non si possa espungere quel mondo che le sue radici nella Christianitas mentre poi quella stessa Europa moderna si è ribellata contro la Christianitas latina attraverso il «processo di secolarizzazione» la dice lunga sulla problematica dinanzi alla quale oggi ci troviamo.
Nei versi che ho appena citato è l’aquila, il simbolo della giustizia e quindi dell’impero, che si rivela nel cielo di Giove e che dà voce al dubbio estremo e profondo di Dante riguardo al mistero della salvezza e della condanna. Può darsi che in quelle poche righe si possa cogliere il primo vagito della Modernità: il dubbio. Se la parola del Cristo è universale, perché non è stata predicata subito a tutti i popoli? E se non lo è, come ha potuto passare per tale? Chi ha fondato la Modernità: Platone o le navi a vela mobile in grado di solcare gli oceani come prima non si era potuto? La voce di Gesù Cristo o quella del cannone?
Lo si direbbe un dubbio assolutamente moderno. Il tema è scottante: è quello della teodicea, della giustizia di Dio e della sua inconoscibilità di questa giustizia per le menti umane.
E questo è uno che pensa nel Trecento? Ma qui c’è Nicola Cusano, c’è Erasmo da Rotterdam, c’è Cyrano de Bergerac, c’è Dostoevskji, c’è Schopenhauer, c’è Theilard de Chardin, c’è Gandhi, c’è Miguel de Unamuno.
E allora chi era Dante? Un falso scrittore mai esistito e messo in giro nell’Ottocento lavorando su spezzoni semianonimi o paraomonimi? Un panflettista d’ancien régime al soldo dello czar, alla stregua di un monseigneur De Maistre qualunque? Un pazzoide redattore di “visioni d’oltretomba” gotiche riletto – e falsificato – da qualche erudito nella Bibliothèque Nationale del Secondo Impero, come un personaggio del Cimitero di Praga di Umberto Eco? Un esoterista redattore di noiosi polpettoni abilmente riciclati poi da best-sellers, della risma di furbastri come Dan Brown?
E se poi Dante fosse invece, semplicemente, un genio?