Cacciaguida. Per lui Farinata non lesinò lodi
I guelfi fiorentini, mischiati alla popolaglia dei mercanti e degli usurai che avevano osato profanare il bel gonfalone della città tingendo di sangue il giglio, erano stati sconfitti, e la maledetta bandiera dei sediziosi era finita nella polvere, calpestata dai cavalli dei vendicatori. Sarebbe stato necessario perfezionare l’opera iniziata, distruggere la città maledetta. Ma perché mai si era messo così di traverso, messer Manente, proprio lui?
Proprio di ciò i ghibellini di Toscana, i grandi feudatari insieme con i rappresentanti delle buone città di Siena, di Pisa e di Arezzo, avevano discusso nel congresso di Empoli.«Delenda Florentia», esattamente come il saggio Catone incitava a fare con Cartagine ai tempi dell’antica Roma! Firenze, che sempre aveva tramato contro il nome e l’onore dell’impero fino ad approfittare della scomparsa di Federico Augusto per usurpare uno dei suoi massimi «iura regalia», il diritto di coniar moneta d’oro. «Fiorino», proprio così, lo avevano chiamato – maledetto fiore! – quello strumento d’ingiustizia e di corruzione che aveva svalutato e deprezzato tutte le buone monete argentee della penisola, che aveva provocato la crisi della «Magna Tabula» dei senesi Bonsignori fedeli sudditi dell’impero, che in due lustri aveva fatto di Firenze la città più ricca della Cristianità latina e che con l’opulenza aveva introdotto i vizi peggiori e l’immoralità più spregevole. Ed erano state le famiglie della «gente nova», i nuovi ricchi che gestivano lo strumento politico e istituzionale del «Popolo» così come manovravano con le loro banche il flusso delle merci nel Mediterraneo, erano state le loro donne avide di abiti lussuosi e di piaceri mondani a corrompere la Toscana tutta, l’Italia, la Cristianità. Di questo si era parlato a Empoli.
Tutti erano d’accordo. Solo uno si era opposto. Lui. Messer Manente degli Uberti, discendente di una consorteria già fiorentinissima un secolo prima, ai tempi del Barbarossa del quale era vigorosa sostenitrice. Manente degli Uberti: ardito e coraggioso come Rolando, virtuoso e fedele in quanto consorte, ascetico nei costumi. Manente che non mangiava carne e non beveva vino: e, pur rimanendo vigoroso, si era fatto per questo tanto pallido e magro che la gente lo aveva soprannominato «Farinata». E di tale soprannome egli si era fatto una bandiera: se ne gloriava. Il fatto è – lo sapevano tutti, soprattutto i preti – che Farinata era un nemico accanito della Chiesa corrotta e mondana, che avrebbe voluto riformare dalle radici per sostituire la gerarchia romana con un’assemblea di veri poveri a somiglianza del Cristo. Farinata era un «patarino», come diceva la gente; o meglio un «cataro», strana parola che veniva usata da quando, in Linguadoca, era stata bandita una crociata contro gli eretici albigesi.
Aveva molti avversari, messer Manente: molti che lo temevano e lo inviavano. Ma nessun ghibellino, dalla Lombardia dov’egli aveva tenuto testa al terribile Ezzelino da Romano fino alla Sicilia dove si sapeva ch’egli era tra i pochi ad aver diretto accesso alla reggia palermitana di re Manfredi, poteva eguagliarlo in autorevolezza e in dirittura morale. Per questo, dopo aver accettato per amor suo, o per paura di lui, di non toccare la «sua» Firenze, ora i capi ghibellini di Toscana si affidavano a lui affinché ripulisse la città dei maledetti guelfi, degli indegni capipopolo tra i bottegai e gli usurai, di tutti quelli che avrebbero potuto esser d’ostacolo alla rinascita dell’autorità del santo impero in quel lungo, difficile momento di vacanza del trono.
C’era un gran brusio, nel refettorio della badia: ma come vi fece ingresso messer Manente parve si rinnovasse quanto sta scritto nel libro dell’«Apocalisse»: quando l’angelo aprì il settimo sigillo, «nel cielo si fece un silenzio di circa mezz’ora». Le molte decine di maggioranti che riempivano la sala tacquero d’incanto e s’inginocchiarono per rialzarsi subito a un suo cenno frettoloso e infastidito. Lui solo sedette su una semplice «cattedra» di legno, uno di quei sedili ampi sui quali stavano installati i maestri degli «Studia» quando insegnavano; tutti gli altri, anche i più vecchi, s’installarono su rozze panche o alla meglio sulla paglia predisposta sul pavimento freddo, come usano fare gli studenti. Gli furono recate solennemente le carte sulle quali la commissione di capifamiglia ghibellini e di notai a quello scopo radunata avevano segnato, sestiere per sestiere, i nomi dei cittadini che avrebbero dovuto esser giudicati. Molti di loro, già si sapeva, sarebbero stati condannati all’esilio: nei casi più gravi, che non erano affatto pochi, il massimo della pena prevedeva l’esilio perpetuo per il condannato e tutta la sua famiglia fino alla terza generazione, la confisca totale dei beni immobili e di quelli mobili ch’essi non fossero riusciti a portare con sé caricandoseli addosso e la morte sul rogo con spargimento delle ceneri al vento se avessero osato rientrare clandestinamente in città.
Messer Manente era, come al solito, di poche parole. Il cancelliere della taglia ghibellina, un giudice pisano, dette lettura dei nomi delle persone da giudicare, sestiere per sestiere, cominciando San Pier Scheraggio. A ogni nome Manente pronunziava il verdetto: immediato, ma definitivo; immutabile e indiscutibile. Erano possibili tre risposte: «Resti»; «Esilio per…» (e qui seguivano i numeri dei mesi e degli anni; s’intendeva che la famiglia dell’esule non sarebbe stata frattanto disturbata e i suoi beni lasciati intatti); «Esilio perpetuo» (e si sa che cosa significasse).