Bonconte da Montefeltro. Un ricordo di guerra, quasi in confessione
Dante di Alighiero di Bellincione degli Alighieri, fiorentino di nascita, non di costumi, alla figlia sua dilettissima suor Beatrice, monaca in Santo Stefano degli Ulivi in Ravenna, pace, salute e benedizione.
Figliola mia dolce, molte volte mi hai pregato di venirti a trovare in codesto tuo monastero, assicurandomi che le tue consorelle ti avrebbero fatto festa. Ho indugiato fin qui per molte ragioni: ma oggi da un lato un ricordo che m’ha assalito non mi dà pace e mi obbliga a parlare, a raccontare; da un altro ho vergogna e paura e confessarlo a chiunque, anche se l’ho già fatto in confessione sacramentale ricevendo la grazia dell’assoluzione, che però non ha pacificato il mio spirito; da un altro ancora a nessuno voglio narrare il mio segreto se non a persona che mi sia cara e fidata, e tu lo sei al di sopra di chiunque. Tuttavia, avrei timore di guardare il tuo volto mentre ti espongo un peso sulla mia coscienza dal quale l’assoluzione avrebbe dovuto sgravarmi: e preferisco una confessione così, su una muta carta. Le mute carte sovente parlano meglio delle labbra: io lo so, ne ho fatto parlare a migliaia.
Lui è tornato in sogno da me stanotte, bambina mia. Era un sogno nitido e sereno. Era bello, pacifico, ma non ridente. Mi ha preso con affetto la mano, quella mano che gli dette la morte, me l’ha baciata e si è raccomandato alle mie preghiere, ancora, ancora. È alta e scoscesa, la montagna del purgatorio: tu lo sai, io lo so… È tornato, e stanotte stava per albeggiare su un giorno che non è come tutti gli altri. Perché or è trentadue anni ch’egli morì, da me ucciso. Sappi che dinanzi a Dio io sigillo le tue labbra affinché tu non ne parli con nessuno: come se tu fossi un sacerdote e io un peccatore pentito. Dio m’è testimone che non volevo uccidere nessuno. Ed ero tranquillo, da quel punto di vista: perché io non sapevo, non so uccidere. Per uccidere volendo farlo, e farlo in modo che agli occhi degli uomini non sia né crimine né peccato, bisogna essere in battaglia: lì, uccidere il nemico è tuo dovere e difenderti da lui un tuo diritto.
Ma bisogna saperlo fare: e io sapevo cavalcare, avevo fatto le mie quintane e le mie armeggerie, mi sarebbe piaciuto diventare «cavaliere di corredo» e pavoneggiarmi con la cintura e gli sproni dorati. Ma non avrei mai saputo ammazzare un uomo: me ne mancava la forza fisica e il coraggio nel cuore. Morire, oh, sì, quello sarebbe stato facile: ma uccidere. La mattinata avanzava, cominciava a far caldo: ma nella mia maglia di ferro, all’ombra dello scudo freddo, io avevo paura. I capi stavano ancora a consiglio: chiacchieroni, litigiosi, pieni di cavilli, come sempre i fiorentini. Forse avevano ragione quelli d’Arezzo, che dicevano ch’eravamo buoni solo a curarci i capelli.
Poi venne fuori la notizia: Il capitano del nostro sesto di Porta San Piero, messer Vieri de’ Cerchi – eravamo passati davanti alle sue vigne venendo su da Pontassieve, sulla via della Consuma – s’era fatto punger dalla tarantola guerriera: di noialtri cavalieri «di cavallata», ch’eravamo ricchi abbastanza da poterci permettere di combattere a cavallo, e ch’eravamo 600 in tutta Firenze, i capi ne avevano scelti 150, cioè 25 per sesto. Sarebbero stati i «feditori», quelli incaricati di far da avanguardia e colpire per primi. Messer Vieri voleva far bella figura a ogni costo: e farla fare alla sua famiglia e a noialtri del partito di cui era a capo, i guelfi bianchi. Ora, i 150 feditori avrebbero dovuto esser volontari: ma quasi nessuno aveva alzato la mano e fatto far un passo avanti al cavallo. I capi avevano fatto la faccia triste e sprezzante, un po’ come quella di chi vorrebbe tanto sputare addosso a chi ha davanti: e avevano cominciato a scegliere loro, designandoci. Messer Vieri aveva fatto subito ad alta voce i nomi di se stesso, di suo figlio e di suoi due nipoti; poi aveva nominato quelli che riteneva i più sicuri della sua parte. E c’ero anch’io.
Per fortuna c’era messer Barone de Mangiadori da San Gimignano, il cavaliere più esperto in scontri in campo aperto di tutta la nostra piccola armata. E ci aveva illustrato una tattica che ci rassicurò. Le cose non stavano più come una volta, che vinceva il primo ad attaccare. Ora le cose erano cambiate, i cavalieri erano appesantiti dalle armature divenute più grevi d’un tempo: avevano guadagnato in sicurezza dinanzi a frecce e a verrettoni di balestra, ma perduto in agilità. Ora vinceva chi stava fermo e risparmiava le forze. Quindi stessimo ben saldi, riparati dagli scudi, pensando solo a sostenere il colpo del nemico e a restituirglielo quando era già stanco e sudato. Che ti devo dire, bambina mia? Doveva avere proprio ragione lui, perché il fatto è che vincemmo. Ma dovessi spiegarti perché non saprei da dove cominciare. Io ricordo solo quei suoni di chiarine che mi lacerarono le orecchie, il rumore di tuono della carica degli aretini e dei ghibellini, il loro grido alto e spaventoso – «San Donato cavaliere!» – e sentii la voce beffarda del mio «amico» Forese Donati, alla mia sinistra, che sibilava «Te la stai facendo nelle brache, eh?, Dantaccio!». Chiusi gli occhi e abbassai la lancia cercando di tenerla più salda possibile dritta davanti a me: ma in un lampo me lo vidi arrivare addosso e mi sentii morire. Avrei voluto scappare, ma i cavalli dei miei compagni mi serravano e non potevo dar di volta. In un attimo, ebbi il tempo di riconoscere i colori del suo scudo e della sua cotta d’arme, a strisce diagonali azzurro ed oro. Che la Madonna mi protegga,! pensai: era nientemeno che un Montefeltro.
Chiusi gli occhi e spinsi la lancia alla cieca, aspettando il colpo che avrebbe forato il mio scudo e mi avrebbe gettato a terra o trapassato a morte. Invece sentii che il ferro della lancia aveva lacerato qualcosa, pur senza affondare. Quando riaprii gli occhi, davanti a me per magia non c’era nulla se non un tappeto di uomini e di cavalli insanguinati. L’onda dello scontro si era mossa altrove, le fila dei due fronti erano scompaginate, si lottava a gruppi disordinati. Ma il cavallo gualdrappato a strisce mi era dinanzi col suo cavaliere malfermo: e scappava via al galoppo, verso chissà dove. Lo avevo ferito: io, senza sapere, senza volere. Io, miserabile vigliacco, avevo versato per caso il sangue più nobile dell’impero. Dovevo raggiungerlo, supplicarlo di perdonarmi, aiutarlo a curare la ferita. Arrivati presso il torrente Archiano, cadde pesantemente da cavallo; sì rialzò e barcollando cercò di raggiungere l’acqua. Si premeva la mano sinistra sulla gola: era lì che la mia lancia senza padrone lo aveva colpito.
E forse era proprio lui: Bonconte, il figlio di messer Federico conte di Montefeltro, il trionfatore della Pieve del Toppo. Ero a poche braccia da lui, ma non sembrava avermi scorto. «Dolce signore…», riuscii a balbettare. Ma non mi udì. Si era alzato in piedi. Trovò la forza di levare alta la spada come una croce, tenendola per la lama, con l’elsa rivolta verso il cielo come se la offrisse a Dio. «Mariaaaaaaaa!», gridò con una voce che il sangue della gola aperta faceva gorgogliare. E cadde, la testa riversa nell’acqua che si arrossava e il corpo sull’erba. Allora si scatenò, d’un tratto, l’inferno. Nere nubi galoppanti, fulmini d’uan luce che accecava, tuoni spaventevoli. So abbastanza di teologia, Beatrice mia cara, per sapere che queste bufere è il diavolo a generarle. Il diavolo, che per anni aveva aspettato di prendersi quell’anima superba come si era presa quella di suo padre. Ma la preda ambìta gli era sfuggita. E il miserabile, ora, si accaniva sul corpo facendolo trascinare dalla corrente dell’Archiano in piena affinché non avesse in conforto delle esequie. Questo ti chiedo, figlia mia virtuosa. Da stasera, ogni sera, prega per l’anima benedetta del nobilissimo cavaliere Bonconte, che non debba penare troppo in Purgatorio; e per quella del suo vile assassino, che avrebbe tanto voluto diventar cavaliere ma in guerra non ci sarebbe voluto andare, né tantomeno uccidere. II tuo infelice padre.
Dato nella sua casa in Ravenna, addì 18 di giugno dell’Anno del Signore 1322, festa di san Barnaba