Uno sguardo di bontà per il ricco Zaccheo
Qualche settimana fa abbiamo incontrato nel Vangelo un uomo ricco che, pur sentendosi figlio di Abramo, fallisce miseramente la sua vita, l’uomo senza nome che banchetta lautamente incurante di Lazzaro alla sua porta.
Nel brano di questa domenica (Lc 19, 1-10) abbiamo gli stessi «ingredienti», un uomo ricco, espressamente qualificato come peccatore, figlio di Abramo anche se forse non sa di esserlo oppure l’ha dimenticato; vi sono vittime di torti e dei poveri bisognosi di aiuto. Qui però l’atmosfera è soffusa di simpatia, l’uomo ha un nome, Zaccheo, è un piccoletto ma che evidentemente sa farsi rispettare se è arrivato ad essere capo dei pubblicani.
Eppure è uno che sa mettersi in gioco, si da daffare, «corre avanti», sale sull’albero. Risponde all’autoinvito di Gesù a casa sua con la restituzione dei beni alle vittime della sua ingiustizia e ai poveri, è capace di reinventarsi, di tirar fuori energie e desideri forse dimenticati. È capace di spogliarsi del suo ruolo, il maneggione, il «furbetto del quartierino» che invece di pretendere gli «Inchini» della processione religiosa alla sua casa, si gioca il rispetto e il timore che la figura di un esattore incute arrampicandosi sui rami come uno scugnizzo qualsiasi.
Da questo punto di vista il Vangelo non ha nulla di manicheo, l’uomo è probabilmente davvero un mascalzone, ma non è solo quello, come ciascuno di noi non è solo il proprio peccato o il proprio difetto. Ecco perché la reazione scandalizzata degli altri ha il sapore dell’ipocrisia, come in genere è lo scandalo dei benpensanti. Non prevede nessun cammino, nessun cambiamento o maturazione nella vita dell’uomo. È una modalità che non è solo relegata a quel tempo o a quella società, ma si reinventa continuamente, anche oggi. Ecco perché credo abbastanza stupido, ad esempio, cercare nel passato di quello o quell’altro candidato politico, peccati di gioventù, affermazioni, gesti, che dovrebbero dire qualcosa sulle sue qualità. In realtà questo, di per sé, dice poco: qual è piuttosto il cammino globale di questa persona, le sue idee, i suoi programmi per il futuro?
Il detenuto che ha scontato una pena, anche per un grave reato, se è invitato a parlare a una platea di studenti, suscita di solito una reazione indignata, dati i suoi trascorsi: ma ciò è davvero giusto? Non potrebbe aver anche qualcosa da dire, un’esperienza da portare, o perlomeno essere criticato per quello che dice e che afferma e non solo per il suo passato? Sono consapevole che si tratta di realtà delicate e difficili da gestire ma il conformismo e l’omologazione (oggi di stampo tecnologico) che sta montando nei nostri tempi mi sembra un pericolo anche peggiore, il ritorno al «chiacchiericcio delle comari» su scala globale.
Dio ha innanzitutto uno sguardo di bontà su tutte le creature (Sap 11,23-12,2; prima lettura) che lui, e non il destino o, peggio, il maligno, ha voluto. Uno sguardo del genere, almeno come punto di partenza potrebbe alimentare in noi una umanità più ricca e matura. «Ma siamo sicuri che, su quella persona, Dio la pensa come me?». Porsi una domanda del genere ogni tanto potrebbe essere salutare per la nostra vita spirituale.
*Cappellano del carcere di Prato