Un pastore per ritrovare se stessi
1. L’immagine del pastore è ampiamente usata nelle Scritture di Israele a indicare a volte Dio (Sal 23; Is 40,1; Ger 31,9), a volte il re messianico (Sal 78,70-72; Ez 37,24) e a volte i responsabili del popolo (Ger 2,8; 10,21; 23,1-8; Ez 34). E sempre in termini di guida e di protezione. Immagine che Gesù nel vangelo di Giovanni applica a se stesso: «Io sono il buon pastore» o «Io sono il pastore bello» (Gv 10 11), tale proprio perché buono. Biblicamente una persona è bella quando coincide con la propria profonda verità, il cuore buono tradotto in gesti di bene; e di tale bellezza-bontà Gesù è l’archetipo, egli l’ «Io sono il pane della vita» (Gv 6,35), la luce del mondo (Gv 8,12), la porta (Gv 10,7), la resurrezione e la vita (Gv 11,25), la via, la verità e la vita (Gv 14,6), la vite (Gv 15,15), il re (Gv 18,37) e ancora « il primo e l’ultimo e il vivente» (Ap 1,8.17). La verità di Gesù sta nel suo essere l’Io Sono nel quale il Padre si è reso presente e manifestato come l’Io Sono amore per l’uomo: pane, luce e vita alle sue molteplici fami, oscurità e morti, via d’uscita e porta aperta alle sue prigioni, ai suoi orizzonti chiusi. Pastore dice tutto questo, la sconfinata compassione di Dio in Gesù nei confronti di pecore allo sbando (Mc 6,34), senza radici-senza orientamento-senza approdi, cercate una a una e poste da Gesù sulle proprie spalle, patria agli smarriti ritrovati (Lc 15,3-7).
2. L’evangelista Giovanni da parte sua ama soffermarsi sulla descrizione del rapporto pastore-pecore a significare la relazione del Gesù terreno prima e del Gesù risorto poi con i suoi e con ogni creatura: «E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare» (Gv 10,16). Rapporto espresso dal vocabolario del «conoscere» e del «dare la vita», l’alfabeto della relazione bella e buona. Leggiamo: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me» (Gv 10,14; cf 10,4); «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10); «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11.15). Ma che significa «conoscere l’altro?». Significa vederlo, chiamarlo per nome, essergli da guida, fargli attraversare la porta dei pascoli della vita, proteggerlo, varcare mari e monti per fare dell’amico perduto un amico ritrovato fino a dargli la propria stessa vita. Questo è il conoscere di Gesù (Gv 10,1-3.9.11-13; Lc 15,4-7), declinare la relazione con l’altro alla luce di una compassione i cui passaggi concreti, ridetto altrimenti, sono «elezione»: «Io ho scelto voi» (Gv 15,16), solo chi ha occhi di amore sa vedere e eleggere l’altro (Lc 10,33); «preziosità», ciascuno ha ed è il proprio nome e conoscere qualcuno comporta il rispetto della sua irripetibile unicità e alterità; «comunione»: «Un solo gregge, un solo pastore» (Gv 10,16) nella conoscenza reciproca (Gv 10,14) e nella libertà (Gv 10,17-18). E ancora «illuminazione»: «Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15), e ciò che Gesù ha udito è riassumibile nella espressione «vita in abbondanza». Gesù sa ciò di cui l’uomo ha veramente bisogno, di una relazione bella e buona che lo dischiuda alla conoscenza profonda di sé e che lo faccia sbocciare a una esistenza bella e buona aperta a inediti futuri, aspetti inscindibili. Per questo è venuto, per essere nel villaggio umano l’ «Io sono la porta» (Gv 10,7) che introduce alla conoscenza dell’amore esagerato del Padre, fonte prima da cui scaturisce la conoscenza di sé come amati inviati ad amare in termini assolutamente esagerati. Quelli di Dio visti in Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13), e per il Padre di Gesù tutti lo sono. In questa prospettiva la «conoscenza» non è esaurita dal sapere filosofico, scientifico o teistico ma attinge l’ambito esperienziale, «homo sapiens» è l’iniziato a conoscere se stesso in termini di amato in forma bella e buona dal Pastore bello e buono, è l’iniziato a conoscere l’altro come soggetto prezioso che ci attende come inviati ad adempiere nei suoi confronti il mandato e il debito dell’amore. A questo pascolo di giorni nella bellezza guida il Pastore, un al di quà il cui al di là si chiama compimento del già iniziato.
3. «Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e al custode delle vostre anime» (1Pt 2,25), un pastore simultaneamente agnello: «L’agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle sorgenti delle acque della vita» (Ap 7,17). L’uomo domanda a se stesso e mendicante alla ricerca della propria verità, costitutivamente errante, da un altro da sé che lo ha custodito e amato fino al dono di sé, costitutivamente agnello, è guidato e fatto risalire, costitutivamente pastore, al suo in principio restituito al suo mistero. La sorgente prima da cui ciascuno trae vita è l’atto di fede, di speranza e di amore del Dio di Gesù verso ognuno; l’acqua seconda che dischiude a giorni luminosi in una vita bella perché buona è l’amore con il quale il Padre ci ha amati in Cristo; la sorgente ultima da cui ciascuno trae vita eterna che nel Risorto si dichiara triste senza la mai conclusa compagnia dell’uomo. Che paradiso è senza l’uomo? Gesù è un pastore davvero unico nel suo inoltrarci nei pascoli ineffabili della nostra origine, generati dall’amore, del nostro compito, inviati ad amare, del nostro approdo, attesi dall’amore.