Un banchetto offerto per tutti
Proprio in questi giorni ricorre il sessantesimo anniversario dell’inizio dell’esplorazione umana dello spazio con il lancio del primo satellite e del conseguente vorticoso sviluppo di questa tecnologia. Uno dei pensieri che gli astronauti, di tutte le nazionalità, hanno sovente riproposto in libri e interviste è che dallo spazio la Terra appare senza frontiere, una barchetta che galleggia nell’infinito affidata alla cura di tutti i suoi abitanti, indistinguibili, da quell’altezza, per lingua, razza o cultura ma semplicemente facenti parte di una sola umanità.
È un’immagine di grande respiro e immediatamente evidente. Eppure sappiamo bene come i particolarismi e le contrapposizioni avvelenino popoli, gruppi umani, società fino al tentativo, a volte tragicamente riuscito, di distruggersi mutuamente. Questa immagine ci ricorda un altro grande affresco, che conserva tutta la sua verità e bellezza, il brano di Isaia nella prima lettura di oggi (Is 25,6-10): il monte casa di tutti, un banchetto aperto a tutti, la terra donata a tutti è l’annuncio esplosivo del profeta, l’unico «habitat» che possa osare di farsi ricettivo della venuta e della presenza di Dio, di fronte al quale anche il magnifico tempio di Gerusalemme diviene angusto (cf. Ag 2, 3-9.) Realtà, anche questa, di per sé evidente per dare respiro alle nostre visuali asfittiche sul mondo e sulla storia, ma forse non poi tanto se il banchetto e la casa dei popoli non ha trovato, finora, non solo una realizzazione ma neppure molti segnali di attecchimento.
Che le cose non vadano proprio lisce emerge anche dal Vangelo di oggi (Mt 22,1-14), che riprende il tema dell’apertura di Dio a nuovi interlocutori già presente domenica scorsa, ma con un’atmosfera assai più cupa. Se leggiamo questo brano in parallelo allo stesso racconto di Luca (Lc 14,16-24), notiamo in quest’ultimo una chiara linearità: se gli invitati non sono venuti verrà qualcun altro, peggio per loro, potremmo aggiungere, l’atmosfera festosa rimane inalterata. In Matteo vi sono elementi di gusto «gotico»: gli inviati assassinati, la spedizione punitiva del re, gli invitati quasi costretti a entrare salvo poi cacciar fuori quello senza l’abito nuziale. La festa sembra compromessa, non c’è un clima disteso, spira un vento gelido.
Questo può rattristarci ma il Vangelo ha anche di queste pagine, che ci parlano non tanto di un Dio irato, quanto di un certo scoraggiamento: è il Dio che già ai primordi constata che il «cuore umano è incline al male fin dall’ adolescenza» (Gn 8,21), e che, in Gesù, versa lacrime sulla città che non ha riconosciuto il tempo in cui è stata visitata (cf. Lc 19,44). Il Vangelo è anche questo perché non si tratta di un libro edificante ma della storia di un padre con i suoi figli e questo rapporto, come tutti i genitori sanno, non è sempre idilliaco. Questa atmosfera cupa è forse dovuta alle difficoltà incontrate dalla comunità in quel tempo, lo sfondo di Gerusalemme circondata dalle legioni romane, forse i primi problemi interni, con la tentazione sempre ricorrente di ritirarsi nel piccolo gruppo degli ultraortodossi riducendo il regno alle proprie visuali. In questo senso la visione di Isaia sembra troppo idealista, vi è forse un sussulto di realismo nella comunità di Matteo. Sarà Paolo che, con toni più distesi, riprenderà e addirittura supererà l’annuncio di Isaia proclamando che Cristo ha abbattuto il muro di separazione «per creare in sé stesso, dei due, un solo uomo nuovo» (Ef 3,13), nuovo e definitivo affresco che anima la nostra speranza.
*Cappellano del carcere di Prato