Solo a Gesù possiamo chiedere la pienezza di vita

Letture del 2 luglio, 13ª domenica del Tempo Ordinario B: «Dio non ha creato la morte»(Sap 1,13-15; 2,23-24); «A te ho gridato e mi hai guarito» (Salmo 29); «Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero» (2Cor 8,7.9.13-15); «Fanciulla, alzati!» (Mc 5, 21-43)DI BERNARDINO BORDO Il progetto liturgico di questa domenica è totalmente impiantato sulla vita, di cui in Cristo troviamo la pienezza: vita che manifesta esigenze al di sopra della dimensione umana, come l’eternità (prima lettura), ma anche quelle contingenti, cioè più umili, che comportano anche malattia, povertà e fame dei fratelli da soccorrere (seconda lettura ).Al centro di questo progetto di vita si staglia la figura di Gesù, non come sorgente primaria (lui stesso aveva precisato che tale è il Padre), ma come sua derivazione diretta ( Gv 5, 26). È questa vita che il Salvatore mette a vantaggio dei malati che incontra sui suoi passi, e dei morti: i primi per risanarli, i secondi per richiamarli alla vita (Vangelo). La prima lettura ci offre la possibilità di osservare come lo scrittore ispirato, un ebreo dell’Egitto e quindi in area ellenistica (motivo per cui non è inserito nel canone biblico ebraico) tenta di superare l’immanentismo deludente del suo popolo, senza, peraltro giungere alla perfetta chiarezza di Cristo, sul tema della vita eterna. La seconda (che appare come un biglietto staccato dal contesto della lettera paolina), ci mostra l’apostolo, intento a stimolare la comunità cristiana di Corinto, in favore dei fratelli della Giudea, ridotti in gravi ristrettezze economiche. Nell’episodio evangelico della figlia di Giairo, la tradizione cristiana ha da sempre inserito la guarigione della donna affetta da emorragie ostinate, come prova della inesauribile disponibilità del divino Maestro, verso ogni richiesta del suo intervento benefico. L’importanza del racconto che inquadra la bambina morta, va dedotta dalla presenza del padre, Giairo, un capo di sinagoga, appartenente, quindi, ad una categoria di persone che già aveva elevato forti riserve su di lui, sul suo insegnamento e le sue scelte. Vedere quest’uomo «impegnato» gettarsi ai suoi piedi, pregarlo con insistenza di venire ad imporre le mani sulla figlia per guarirla, finché la crede viva, eppoi seguirlo con trepidazione nella camera dove la trova deceduta, sperando di vederla tornare in vita, ha del commovente. Si dissociava così dai colleghi, rischiando gravi ritorsioni. L’amore paterno, la fede in quel misterioso rabbi di Nazareth avevano avuto il sopravvento.Un’ultima osservazione: Marco ci ha conservato la frase nell’originale aramaico: Talitha qumi, Fanciulla levati su, inserendovi di suo quell’io ti dico, tralasciando invece, l’ordine dato ai genitori presenti: Datele da mangiare! Ci ha pensato il medico Luca, a corrente di come i giudei del tempo deducessero la certezza della propria esistenza dall’atto di mangiare, non dall’ego cogito di Cartesio.

La celebrazione eucaristica di questa domenica, pertanto, ci richiama al Verbo in cui «era la vita» (Gv 1 4), e vi è tuttora, a dimensione di «pienezza», da cui «noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia» (ivi 16). E con il Verbo, fattosi carne, per dare la vita al mondo, ci immettiamo in un circuito di vita, da farla rifiorire in chi l’avesse lasciata intristire e offrirne in abbondanza a chi è disposto a comunicarla agli altri con amore fraterno.

Un modo di calarsi mistero eucaristico, da cui non si può venir fuori se non trasfigurati in una luce molto simile a quella che avvolse i tre testimoni del Tabor.