Se la domenica diventa «ordinaria»

Letture del 5 giugno, 10ª domenica del tempo ordinario: «Voglio l’amore e non i sacrifici» (Os 6,3-6); «Abramo ebbe fede sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18-25); «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,9-13)DI PIERDANTE GIORDANO«Senza la domenica non possiamo vivere». È di una manciata di giorni la distanza dalla solenne celebrazione del Congresso Eucaristico che ci ha martellato con questa forte confessione di fede. In realtà, della domenica possiamo benissimo fare a meno. Se può sembrare blasfema questa mia affermazione, come può essere definita la prassi all’interno delle nostre comunità? Dopo l’enfasi del «tempo forte» della Pasqua, Ascensione, Pentecoste e le solennità celebrative della Trinità e dell’Eucaristia, ecco la tentazione di stagnare nel tempo dell’ordinarietà.

Dal tempo dell’allenamento al tempo dell’allentamento della fede. Complice l’«esodo» estivo. Se l’Esodo storico è stato prova di maturazione e di impegno, il nostro esodo diventa pratica di disinteresse spirituale e, spesso, di abbandono. Allertava Don Bosco: «Le vacanze sono la vendemmia del diavolo». È lecito farsi provocare dalla domanda se, in questi mesi, la dignità della persona umana, la spinta alla crescita e la qualità dell’esperienza di fede possano legittimamente prevedere soste prolungate o stacchi pesanti (per riprendersi al prossimo tempo di Avvento) o non sia il caso di reagire all’abitudine diffusa di generale smantellamento con una testimonianza di coerenza e di serietà.

La Liturgia, pur nel ritmo celebrativo che si propone come «ordinario» (che vorrei tradurre come: quotidiano, normale, della regola ordinaria di vita), suggerisce riflessioni di fede che sembrano fatte apposta per sottrarci alla tentazione di un contesto culturale appiattito, pigro, superficiale, rassegnato. Ci ammonisce Dio con le parole di Osea: «Il vostro amore è come rugiada che all’alba svanisce». Anche nella pratica della fede ci riconosciamo a temperatura variabile. Preferibilmente in caduta. Portiamo nella relazione con Dio e nell’esperienza di relazione con la comunità la cultura dell’effimero, della provvisorietà, dell’esperienza a volte forte ma isolata e subito superata, la tendenza all’inconsistenza e all’incostanza. Continuità, fedeltà, costanza, resistenza… non ci sono familiari neppure in ordine alla fede. Quanto è opportuno il richiamo di Paolo ai Romani, che è un invito anche per noi a confrontarci con la capacità di continuità e di «tempi lunghi» di Abramo: «Non vacillò nella fede, pur vedendo…».

Su una misura alta dell’esperienza di fede ci sollecita soprattutto il Vangelo, dietro l’invito che suona in modo martellante in Osea: «Affrettiamoci a conoscere il Signore!» e ripete: «Poiché voglio l’amore e la conoscenza di Dio». Anche in tempo «ordinario» la Parola di Dio, che educa il suo popolo, presenta accenti inquietanti che finiscono per disturbare e mettere in crisi. La Liturgia ha scelto un vangelo che presenta Gesù che familiarizza con gente «brutta». È umanamente comprensibile la reazione dei Farisei (credenti che avevano preso sul serio la loro fedeltà a Dio e ce la mettevano tutta per essere santi e farsi vedere tali): «Come può quest’uomo, che si dice maestro di spiritualità e ha la pretesa di avvicinare la gente a Dio, frequentare gente che tutti conoscono riprovevoli, moralmente infangati fino all’osso?». Gesù coglie la domanda per rivelare il volto inedito di Dio, un Dio che la gente per bene non avrebbe mai immaginato così come Gesù continuerà a farlo conoscere.

Il Dio di Gesù non è il giustiziere che va a caccia di chi sbaglia per fulminarlo. Non è nemmeno il Dio che si distrae compiaciuto con chi si affatica a moltiplicare atti formalmente religiosi al fine di convincersi di giustizia e di santità. È il Dio dal cuore grande (questo significa la parola «misericordioso») che avvicina l’uomo ferito, fragile, incostante, sbandato, disperato, che non ce la fa più ad alzarsi da solo, che tende disperatamente la mano a qualcuno… Il Dio di Gesù è lì. Non è in cielo. È proprio l’uomo Matteo di cui il Vangelo narra la chiamata a «seguire» Gesù, che più avanti nella sua testimonianza capisce la forza di Dio che opera in Gesù, proprio nel momento in cui è più vicino all’umanità disfatta, che ha bisogno di un Dio che non venga a giudicarla, ma a trarla in salvo. È il grandioso capitolo 27 di Matteo (Mt 27,45-54): «Gesù gridò ancora, forte e poi morì. Allora il grande velo appeso nel tempio si squarciò da cima a fondo». Qui Matteo non aspetta la risurrezione di Gesù per dirci come è cambiata la storia dell’umanità.

Quel velo che mirava a separare Dio (il santo, il perfetto) dall’umanità (peccatrice, sporca) si spezza e Dio finalmente, grazie a quell’uomo che muore sulla croce, può emigrare da quel luogo «sacro» (è il santo dei santi del tempio) dove gli uomini (per bene!) volevano tenerlo segregato. E i primi a riconoscere questo Dio, vicino all’uomo ferito, non sono i «santi» del tempo di Gesù, ma gli esclusi dall’esperienza religiosa (è il centurione a dire: «Quest’uomo era Dio»!). Matteo, che era tra gli esclusi, può ben dire come è stata trasformata la sua vita dall’incontro con Gesù. Con convinzione ci trasmette la parola di Gesù che ha sperimentato di portata sconvolgente: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».