Santissima Trinità, vicini al mistero

Domenica 22 maggio, Santissima Trinità: «Signore, Signore, Dio misericordioso e pietoso» (Es 34,4-6.8-9); «A te la lode e la gloria nei secoli!» (Dn 3,52-56); «La grazia di Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo» (2 Cor 13,11-13); «Dio ha mandato il Figlio suo perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,16-18)DI PIERDANTE GIORDANOGrazie al dono dello Spirito Santo, che la Liturgia festiva ci ha appena invitato a risvegliare nella nostra vita di credenti, siamo spinti a familiarizzare con il mistero più straordinario che avvolge la storia dell’umanità: il mistero di Dio. Le prossime celebrazioni della comunità cristiana spingono al cuore di questa realtà, che accogliamo nell’ineffabile mistero di comunione con cui Lui si rivela (Santissima Trinità), ma anche nello spessore concreto di una vicinanza che si fa presenza e compagnia nella storia della nostra fragilità (Corpo e Sangue di Cristo e, subito appresso, il «Sacratissimo Cuore» di Gesù). Sono segmenti della nostra fede che abbiamo bisogno di avvicinare lungo un’unica linea di riflessione, di contemplazione e di preghiera riconoscente.

Per ricondurli all’unico grande obiettivo che stava a cuore alla predicazione di Gesù, come ricorda il Vangelo di questa domenica: «Perché chiunque crede non muoia, ma abbia la vita eterna». Sta a cuore a Dio. Sta a cuore anche a noi. La Liturgia odierna ci porta a confrontarci con un mistero che sempre ha contrassegnato la vita dell’umanità e di ogni singola persona. Tutte le culture e in tutti i tempi hanno fatto i conti con una qualche idea di Dio. Anche se il modo di conoscerlo e di rappresentarlo è quanto mai vario e condizionato dai limiti della nostra conoscenza, fino al punto di dedicargli una statua (il «Dio ignoto» cui fa riferimento S. Paolo quando predica a Corinto), per eccesso di prudenza, al fine di non rischiare di dimenticarlo. Ma oggi non è più così. La nostra cultura ha fatto progressi e ha inventato l’ateismo. Prima, nei millenni passati, era impensabile. Dopo l’urlo di Nietzsche, Dio può essere realmente morto. Così, se nel passato, anche il cristiano si interrogava su come poteva combinarsi un Dio unico in tre Persone, oggi la domanda si sposta sulla convinzione che di Dio possiamo fare tranquillamente a meno. In un mondo interpretato sempre più nelle mani dell’uomo, l’idea di Dio diventa un’ipotesi inutile, perché ogni volta che l’uomo ha fatto un passo avanti nella conoscenza del mondo, Dio è stato costretto a fare un passo indietro. È una delle tante realtà finite in rottamazione. L’inerzia culturale dei credenti ha dato una mano a questo stato di cose. Forse è stato il modo deforme di rappresentare Dio che ha contribuito maggiormente al successo dell’ateismo. Ne dà conferma la sensibilità più diffusa di ammissione teorica di una qualche fede in Dio, ma di una altrettanto diffusa difficoltà ad accettare la Sua «chiesa». Ma, in ogni caso, tra questioni di «fede» e problemi di «vita», nel nostro mondo, non c’è interferenza: sono questioni che vanno separate. Così pensano i più. È su questo dramma del nostro tempo che la Liturgia invita a gettare una luce e ci spinge a superare la tentazione di cercare Dio dove non è o a rappresentarcelo in modo così deforme da giustificare le prove della sua inesistenza. La Liturgia di questa domenica ci aiuta a fare il primo passo. Non può non essere innestato con quanto celebreremo domenica prossima (il mistero grande di Dio che «si fa presenza», che diventa «quotidiano» come il pane di cui abbiamo concretamente bisogno e senza cui non è possibile vivere). Penso che la Scrittura oggi ci regali due piste di riflessione straordinarie per misurarci con una idea diversa di Dio. Dal libro dell’Esodo merita rimarcare l’annotazione: «Il Signore scese dalla nube e si fermò presso di lui». Dal Dio «ineffabile» (di cui non si poteva nemmeno parlare tanto era trascendente e alla fine «pericolosamente» lontano), la stessa Parola di Dio ci educa a riconoscere un Dio che si «ferma» accanto a noi. Da un Dio da temere a un Dio da amare, perché percepito familiare a noi.

Il Vangelo aggiunge e completa un’immagine diversa di Dio. Non è più la presenza terrificante e giustiziera che molti si immaginavano, ma è un Amore (Dio stesso è in sé circolarità di dono e di affezione) che sogna una vita piena e sovrabbondante per ogni uomo. Il Dio che Gesù ci aiuta a conoscere e a incontrare non è un Dio di solitudine, ma di comunione. Un Dio che emigra dai luoghi sacri e riservati, entro cui lo si voleva costringere, per raggiungere una umanità che finiva per soffrire dello stesso sequestro di Dio. È un Dio che Gesù ci insegna a chiamare «Padre» perché sogna che diventiamo Sua «famiglia» e per essere tale ci inonda della Sua forza di «santità» (è la qualità specifica di Dio: «santo» significa totalmente diverso, al di sopra del limite). È questa la fotografia di Dio che Gesù è venuto a offrirci ed è nel confronto con questa immagine presente ai nostri occhi che è chiamata a cambiare la nostra stessa identità: Dio ci rivela a noi stessi. Anche noi siamo per la comunione, la relazione, l’unità profonda. Dove questa è compromessa, dove c’è solitudine e separazione c’è disperazione, c’è terribile sofferenza, c’è morte. Realtà che sono estranee al Dio che Gesù ci ha aiutato a incontrare.