Rinunciare a tutto per essere discepoli
Solitamente la liturgia domenicale ci propone, a partire dal brano evangelico, un confronto con un brano dell’Antico testamento, nella prima lettura, che lo annuncia, o del quale è il compimento o comunque è in qualche modo collegato ad esso. Questa domenica non sembra facile cogliere questo legame. Una riflessione sulla pesantezza dei ragionamenti umani che necessitano di una luce dall’alto, nel brano di Sap 9, 13-18; una proposta provocatoria e dirompente, quella di Gesù (Lc 14,25-33).
Addirittura potrebbe sembrare una contrapposizione: una riflessione pacata e ragionevole, quasi accademica, quella di Sapienza, una bomba innescata quella di Cristo. Al punto che la traduzione recente della Sacra Scrittura ha smussato alcuni angoli: il celebre verbo «odiare» presente fino a pochi anni fa nel lezionario è stato sostituito dal più lineare «amare di più»: da «se uno non odia suo padre…» a «se uno non mi ama più di quanto ami suo padre…».
È vero che si tratta di una traduzione legittima perché, come dicono gli specialisti basandosi su criteri grammaticali e sintattici, il senso è questo e non certo un odio aperto verso i propri cari, ma la sensazione che questa sia stata una scelta più «comoda» rimane. Lo stesso disagio forse possiamo provarlo leggendo al v. 33: «chi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo». Qui forse non è possibile fornire traduzioni alternative, ma sicuramente nella catechesi e nella predicazione spesso si è smorzato il tenore di questa richiesta. Tranne forse i primissimi tempi della comunità apostolica o in esperienze particolari, la rinuncia agli averi non è stata certo una prassi comune.
Se prendiamo sul serio queste richieste forse non ci resta che fare nostre le perplessità espresse altrove a Gesù: «E chi si può salvare?» per fare nostra anche la sua risposta: «impossibile presso gli uomini ma non presso Dio» (Mc 10, 26-27). Allora forse è questo il punto centrale (che recupera anche il messaggio della prima lettura). Abbiamo bisogno di una sapienza diversa, non particolarmente raffinata o elitaria ma che provenga dall’alto, che ci introduca in un dimensione diversa, quella che Paolo chiamerà «una stoltezza più sapiente della sapienza degli uomini» (cf. 1 Cor 1,25).
Una realtà da chiedere perché non è una nostra costruzione. Le due brevi parabole inserite nel brano di oggi sono emblematiche: nessuno da noi può entrare in guerra con un nemico strabordante. Il discepolato non è semplicemente una questione per spiriti generosi. Non è neanche esperienza di fede andare incontro a testa bassa e a cuor leggero contro chi può schiacciarti. C’è il passaggio della relazione con il Signore, il riconoscere innanzitutto la nostra incapacità, che noi non siamo capaci di essere discepoli, ma lui può renderci tali. E allora si può arrivare a fare scelte anche umanamente pazze, a combattere senza paura contro forze soverchianti fidando nella presenza del Signore (cf. Es 14,14.)
Questo discepolato deve rimanere una costante della nostra vita. S. Ignazio di Antiochia, vescovo e padre della chiesa, ormai prigioniero e in attesa del martirio scrisse alla comunità di Roma: «sto cominciando ad essere un discepolo»(Ai Romani, V,3).
*Cappellano del carcere di Prato