Rallegriamoci, la salvezza è vicina
La terza domenica di Avvento porta sempre con sé una colorazione gioiosa, risuona l’invito del profeta nella prima lettura (Sof 3,14-17) a rallegrarsi per la vicinanza della salvezza. Anche la predicazione del Battista (Lc 3,10-18), pur conservando alcuni toni abbastanza minacciosi, si allarga in positivo offrendo utili suggerimenti per disporsi all’accoglienza di colui che viene e non incorrere in una severa condanna. Sono suggerimenti improntati alla moderazione, alla giustizia, alla condivisione. In tutto questo aleggia un sentore di saggezza, di logicità, di evidenza dei fatti che tutti possiamo tranquillamente sottoscrivere.
Non lo diciamo tante volte, al punto quasi di farne un luogo comune, che basterebbe consumare meno, aiutare di più il prossimo, essere meno egoisti, dedicare più spazio alle relazioni autentiche invece di correre sempre… e allora perché tutto questo non funziona? Perché questo senso di giustizia che perfino gli amici del Bar Sport ribadiscono nei loro dibattiti stenta a prendere campo? Perché tutti coloro che pensano di possedere le ricette per sistemare la società, il mondo intero con i suoi problemi, si limitano a sputare sentenze? Perché il buon Renzo nei Promessi Sposi, una sera che all’osteria ha alzato il gomito e comincia a parlare di come sarebbe semplice dare ad ognuno secondo il suo bisogno senza che i soliti prepotenti si prendano la fetta più grossa, si ritrova con le manette ai polsi? Perché il bene comune è saccheggiato, sciupato, sprecato, quando sarebbe così semplice e razionale che nessuno esiga più di quanto gli è dovuto?
E’ una realtà che rasenta la tragedia, quella che qualcuno ha definito alcuni anni fa come «la tragedia bei beni comuni», quella che fa chiudere gli occhi sui problemi come quelli del clima, delle risorse non rinnovabili, sui movimenti dei popoli e la demografia, per rimandare a domani, per spremere il più possibile da quest’oggi, relegando i valori morali, appunto, ad affermazioni di principio da sbandierare in qualche occasione e niente più. Ed ecco perché, perfino nel Vangelo, Lazzaro continua a morire alla porta del ricco (cf. Lc 16,20), i pubblicani continuano nei propri affari, la truppe tormentano un innocente come è Cristo stesso (cf. Mt 27,30). Intendiamoci, non tutto è così nero: Matteo il pubblicano lascia i suoi affari e segue Cristo (Mt 9,9), Zaccheo restituisce il maltolto con gli interessi (cf. Lc 19,8), il centurione ha una fede più grande di tutti (cf. Mt 8,10). Ma questo non è il frutto di una riflessione morale improntata alla moderazione e alla razionalità. E’ frutto di un incontro con un uomo che è tutto fuorché moderato, che chiede, appunto, di lasciare tutto, di perdonare chi ci fa del male, di pregare per i nemici (cf. Mt 5,44), quanto di più assurdo e squilibrato possano udire i nostri orecchi. Ma l’equilibrio, il più delle volte, è quasi inutile in un mondo già squilibrato di suo: occorre piuttosto un’altra forza potente uguale e contraria, uno squilibrio che sorprenderà perfino il Battista, quando Cristo non appiccherà roghi per nessuno, ma offrirà se stesso per la salvezza di molti, e chiederà ai suoi di seguire le proprie orme (cf. Mt 16,24).
La gioia, caratteristica di questa domenica, non può perciò che nascere da l’esperienza di questo incontro, che sboccia laddove nessuno se lo aspetterebbe, che è sottratta ad ogni misurazione troppo circoscritta, che anche nelle angustie della vita presente (Fil 4,4-7; 2ª lettura) fa scaturire il frutto della pace.
*Cappellano del carcere di Prato