Quel «lieto annuncio» che non piace a tutti
Questa liturgia della terza domenica di Avvento, detta tradizionalmente «gaudete» per il tono gioioso dell’annuncio che risuona nelle letture, si apre appunto con la proclamazione, da parte del profeta, della liberazione messianica (Is 61,1-11; 1a lettura) che Cristo farà propria e della quale annuncerà il compimento nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,16-21).
Apparentemente si tratta di un programma e di un annuncio sul quale tutti dovrebbero essere d’accordo ma, come sappiamo dal prosieguo del brano di Luca, non è così, e probabilmente non è scontato neppure per noi. I miseri, gli schiavi di oggi non riscuotono molta simpatia; le tragedie del nostro tempo ricevono spesso qualche frettolosa espressione di cordoglio istituzionale: «mai più naufragi nel Mediterraneo, mai più violazione dei diritti umani…» ma da qui a rallegrarsi per i pericoli scampati, all’aiuto concreto, al farsi carico di vite allo sbando ce ne corre. Anche chi vuole impegnarsi in questo attraverso il volontariato, nell’associazionismo a vario titolo, incontra opposizioni e ostacoli, dei quali abbiamo avuto esempi tristissimi in questi ultimi giorni. Non parliamo della liberazione dei prigionieri, quando anche solo l’ipotesi di benefici quali l’indulto o l’amnistia è la bestia nera che quasi tutti i politici cercano di evitare come la peste per non inimicarsi l’opinione pubblica in vista del voto.
Mi si dirà che forse qui si parla di prigionieri ingiustamente detenuti, di delitti di opinione… a parte che il testo non lo dice, ma credo che solo nei romanzi ci sia il tiranno che da solo opprime un popolo. Spesso le oppressioni, anche le più odiose, hanno avuto ampio appoggio da vari settori della società per ignoranza, convenienza o malafede. Il feeling per il nazismo che sembra percorrere oggi l’Europa è solo l’ultimo esempio. La realtà è che l’annuncio di Cristo è di per sé «sovversivo» nel senso che non è possibile incasellarlo nei nostri schemi, piuttosto ribalta ogni nostro schema.
Di fronte ai tentativi, nel brano evangelico di oggi (Gv 1, 6-8.19-28) di racchiudere il Battista in un identità predefinita egli può solo dire chi non è, lasciando incompiuta l’ansia degli interlocutori. Ogni profeta è di per sua natura un rompiscatole (e infatti tutti fanno, più o meno, una brutta fine), perché relativizza ogni costruzione umana, rilancia la posta, sposta l’asticella più in alto. E’ una funzione che ammonisce di non «sposare» nessuno degli impianti culturali, religiosi, sociali e politici per non renderlo idolatrico.
Di fronte a quelli che sbraitano per difendere la civiltà o l’identità cristiana, spesso solo fatta di labari, gagliardetti e crocifissi sui muri, forse la Chiesa dovrebbe proporsi più per quello che non è, come Giovanni, indicando orizzonti più vasti, riconoscendo quanto di profetico può emergere nel mondo affinché non venga disprezzato (cf. 1Ts 5,16-24; 2° lettura). Non è un ipotesi assurda poiché, da parte sua, è quanto viene quotidianamente proposto da Francesco che, pur essendo a capo di un’istituzione complessa come la Chiesa cattolica e con una funzione che sembrerebbe come minimo moderatrice rispetto a guizzi in avanti, è forse l’unico a remare conto corrente, ad affermare verità impopolari, a parlare di apertura, accoglienza , perdono, riconciliazione, contro tutte le saggezze e le correttezze politiche che pervadono il nostro mondo. Una via percorribile nel deserto del nostro tempo.
*Cappellano del carcere di Prato