Nel nucleo incandescente della nostra fede

Letture del 16 marzo, Domenica delle Pame e della Passione del Signore: «Non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi, sapendo di non restare deluso» (Is 50,4-7); «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato» (Salmo 21); «Cristo umiliò se steso, per questo Dio l’ha esaltato» (Fil 2,6-11); «La Passione del Signore» (Mt 26,14-27,66)

DI MARCO PRATESI

Domenica delle Palme, memoria della passione: davanti ai nostri occhi sta il Crocifisso. Ci è proposto un «simbolo di morte»? Rispondere a questa domanda significa considerare il mistero della croce, cosa che il cristiano deve fare sempre, ma in particolare nella settimana santa. La «grande settimana» ci trascina nel nucleo incandescente della nostra fede, che è poi anche quello dell’esistenza umana.

Per prendere una delle tante possibili piste, rileggiamo una preghiera liturgica, l’orazione del lunedi santo: «Guarda, Dio onnipotente, l’umanità sfinita per la sua debolezza mortale, e fa’ che riprenda vita per la passione del tuo unico Figlio». L’orazione riprende quella latina, che recita: Da, quaesumus, omnipotens Deus,ut, qui ex nostra infirmitate deficimus, intercedente Unigeniti Filii tui passione, respiremus. Una bella sintesi di teologia e spiritualità. L’uomo appare stremato, ha la morte alle calcagna. Retorica? Guardiamoci intorno, guardiamoci dentro. Tutto questo affannarsi mi richiama alla mente un detto latino, in finem citius ovvero, liberamente: quanto più ci si avvicina alla fine, tanto più ci si agita… parossismo di morte, manca l’aria, il fiato sempre più corto.

A fronte di questa situazione, la passione del Figlio Unico ridà respiro, restituisce vita. Possiamo nuovamente respirare. Sulla croce succede qualcosa che «si frappone» (inter-cede) fra noi e la morte. Che cosa? Certo, siamo nel mistero di Dio. Ma “mistero” non significa per niente qualcosa di semplicemente incomprensibile, per cui la cosa da fare sarebbe soltanto credere rinunziando a capire; il che assomiglia poi molto a metterlo da qualche parte nella credenza senza più nutrirsene. No, il mistero ci è dato perché ne traiamo alimento. Dobbiamo guardare la croce, «contemplarla». Smettiamo di affannarci e fissiamo lì lo sguardo, come in tanti dipinti del Beato Angelico, pieni di silenzio, ove sotto la croce sostano in raccoglimento figure pensose e quiete. Che cosa vediamo? Uno come noi, uno che ha – proprio come noi – il fiato corto e la morte alle calcagna. Che fiato può ridarci mai un simile spettacolo? Ognuno dia la sua risposta, senza soluzioni preconfezionate. La contemplazione è una lotta con Dio: «non ti lascerò finché non mi avrai benedetto» (Gen 32,27). Quando può dirsi «riuscita» la contemplazione della croce, quando benedetta? Quando rappresenta per noi una boccata d’aria, qualcosa che è già risurrezione. Avremo vinto quando, di fronte ad essa, sentiremo sgorgare la semplice risposta dell’assemblea al ministro che, presentando la croce, esclama: «la croce di Cristo!», vale a dire: «rendiamo grazie a Dio!».

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