Mettersi in gioco
Perché le folle interrogano Giovanni? Forse è questa la domanda che ci sale dal cuore a queste prime parole del brano evangelico di oggi. Ebbene, nei versetti immediatamente precedenti a quelli proposti per la liturgia di oggi, Luca riporta le parole rivolte da Giovanni a quanti andavano a farsi battezzare da lui: «Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque frutti degni della conversione e non cominciate a dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre!». Senza dubbio sono parole severe, diremmo quasi minacciose, per richiamare i suoi ascoltatori a prendere sul serio il tempo della «visita» del Cristo, che avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Evidentemente la «parola scesa» su Giovanni, dava alla sua «voce» una forza tutta particolare tanto da suscitare nei suoi ascoltatori desiderio di conversione. Essi infatti chiedono: «Che cosa dobbiamo fare?». Accade ciò che accadrà dopo la prima predicazione di Pietro il giorno della Pentecoste. Anche allora, dopo l’annuncio dell’apostolo che quel Gesù che «voi (giudei) per mano di pagani, avete ucciso e crocifisso, ora Dio lo ha risuscitato liberandolo dai dolori della morte», «si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che dobbiamo fare fratelli?». La risposta di Pietro e degli apostoli è essenzialmente la stessa di Giovanni Battista: «Convertitevi!…».
Già da queste parole possiamo trarre un grande insegnamento. Anche noi, come gli ascoltatori del Battista, ci basta dire abbiamo per padre Abramo, (siamo battezzati) per credere di essere a posto? Certamente no, ci dice Giovanni. Se anche noi non faremo frutti degni della conversione non «sfuggiremo all’ira imminente».
A parte la severità dell’affermazione, il richiamo è evidente: o cambiamo stile di vita o rimarremo fuori della pienezza della Vita che Gesù è venuto a portarci. E, allora, che cosa dobbiamo fare? Il Papa ha voluto che questo anno fosse l’Anno della Fede, un anno nel quale interrogarci sulla Fede, ma soprattutto su come la Fede incida nella nostra vita. Ci sono domande sulle quali forse non ci siamo mai fermati a riflettere e che, invece, sono essenziali se non vogliamo accontentarci di una pratica religiosa: che cosa significa per me credere? Da quando affermo di credere, cosa è cambiato nella mia vita? E se smettessi di credere, cosa cambierebbe? Cesserebbe solo la pratica religiosa?
Il Battista a coloro che gli chiedevano che cosa dovevano fare, non ha detto di moltiplicare la pratica religiosa, ma di cambiare stile di vita. A tutti ha chiesto di aprirsi all’«altro» praticando la condivisione. A chi gli ha posto la questione del proprio mestiere inviso a molti, non ha chiesto di lasciarlo, ma di viverlo nella giustizia senza soprusi, prevaricazioni o violenze. Le indicazioni di Giovanni quindi sono due: carità e giustizia. Sono raccomandazioni che vanno bene anche per noi oggi. Se non ci mettiamo in gioco, se i nostri comportamenti non sono mossi da queste due virtù, non possiamo dire di essere credenti, uomini e donne che hanno accolto l’irruzione della Parola nella propria vita, ma di farsi usbergo di essa per illudersi di essere a posto, ricalcando l’illusione dei giudei che credevano bastasse loro affermare che Abramo era loro padre.
Il Signore «che viene» entri nella nostra vita e la cambi sulla linea dell’amore verso il prossimo e sulla linea del «fare ognuno quello che deve fare» praticando la giustizia prima di tutto con se stessi e, di conseguenza, con gli altri. Se noi cristiani, anche solo noi (addirittura solo io) che leggiamo questo giornale, ci comportassimo così, credo che cambierebbe il «nostro» vivere e, di conseguenza, il vivere dell’umanità. È difficile, ma non impossibile, perché «il Signore è con noi».