L’Eucarestia non è un «selfie» con Dio
La festa del Corpo e Sangue del Signore ci propone una riflessione sull’importanza di riconoscerne la presenza nel Sacramento. È vero che fin dal catechismo di S. Pio X, si pone come condizione per una partecipazione autentica il «sapere e pensare chi si va a ricevere», ed è vero altresì che fra le preoccupazioni pastorali dei parroci vi è quella di un accesso abbastanza disinvolto all’eucarestia che porta a volte a ribadire (specialmente in caso di celebrazioni molto partecipate) l’invito a non accostarsi alla comunione per chi non si è confessato. Ciò che possiamo desumere al riguardo dalla Scrittura, specialmente dalla seconda lettura di oggi (1Cor 11,23-26) è però qualcosa di più profondo. Questo brano, che ci parla della tradizione che Paolo ha ricevuto, il «fare memoria» che è divenuto prassi per la Chiesa, evento fondante della vita comunitaria, è inserito dall’Apostolo in una polemica descritta in quel capitolo. Non si tratta di peccati eclatanti che dovrebbero portare i membri della comunità all’esclusione dall’eucarestia, ma di un peccato che forse ci appare veniale: il pensare ciascuno per sé.
Il partecipare all’eucarestia senza curarsi del fratello, l’incentramento (forse) sulla propria devozione personale. Il non riconoscere, quindi, non tanto Gesù Cristo nella sua presenza divina, nella sua realtà spirituale, ma nella sua missione, quella di essere venuto a radunare un popolo disperso, a renderci non solo membra del suo corpo ma membra gli uni degli altri (cfr Rm 12,5). La perfezione personale non può essere perciò l’unico criterio per l’accesso al sacramento, perché questo potrebbe portare, paradossalmente, all’effetto opposto, già stigmatizzato da Gesù nella parabola del fariseo e del pubblicano (cfr Lc 18,10). L’eucarestia è il cibo dei pellegrini, non dei perfetti, il «pane del cammino» di cui cantiamo nelle nostre assemblee. È il riconoscere il dono che ci porta a sentirsi bisognosi, solidali coi fratelli, anche e soprattutto con quelli che cadono, che sono lontani, proprio perché ci riscopriamo bisognosi di salvezza, nessuno escluso.
Nonostante il racconto del Vangelo, la moltiplicazione dei pani, sia solo un annuncio del «pane vero», rimane comunque valida la realtà che esprime: un popolo stanco, che necessita che qualcuno «metta sul piatto» ciò che ha, perché Cristo lo trasformi. E’ la dinamica offertoriale dell’eucarestia, la partecipazione di ciò che siamo e che non può diventare solo un gesto formale. Non per niente Cristo metterà in guardia i discepoli che non riconoscono il gesto dei pani e non colgono il senso che racchiude: «mi cercate non perché avete visto un segno, ma perché avete mangiato di quei pani» (Gv 6,26). Il segno era una possibilità nuova di rapporto fra gli uomini, o almeno in seno alla comunità, invece è stato trasformato in un gesto a proprio vantaggio.
Anche la celebrazione dell’eucarestia può incorrere in questo rischio, se ridotta a rito, a cerimonia, una sorta di «selfie» fra il singolo e il suo Dio e che rimane confinato solo nel proprio io.
*Cappellano del carcere di Prato