L’Eucarestia in carcere: Gesù si dona senza riserve
Iniziando questa riflessione sulla liturgia della festa del Corpo e Sangue del Signore, chiedo scusa se partirò da alcune considerazioni riguardanti il mio servizio pastorale nel carcere di Prato, ma che ritengo utili per guardare con una certa ottica questo grande mistero della nostra fede.
La celebrazione eucaristica, in carcere, è uno dei momenti centrali della pastorale, come sempre del resto, «fonte e culmine» della vita cristiana, come afferma il Concilio (Sacrosanctum Concilium, 10). A volte, specialmente parlandone all’esterno, incontro qualche perplessità, quando non critica aperta: che senso ha celebrare con una comunità di persone che si sono macchiate di crimini, a volte anche molto gravi? Qualcuno potrebbe nutrire dubbi sul pentimento individuale, o sulla sua possibilità in assoluto: è davvero possibile, pensabile, un pentimento riguardo a crimini abietti, infami, magari ripetuti? Altri ancora, posto che il pentimento sia possibile, potrebbero dubitare che Dio stesso possa o voglia perdonare (nonostante le tante prediche sulla divina misericordia, la cosa rimane assai ostica).
Ebbene, credo che la celebrazione eucaristica in questo contesto riveli chiaramente la situazione generale del rapporto fra l’uomo e Dio. In carcere è perfino più facile: sappiamo ciò che siamo, non dobbiamo perdere tempo ad imbellettarci in alcun modo di fronte a Dio (anche se la tentazione del confronto con chi pensiamo sia peggiore di noi è comunque in agguato), possiamo volgere lo sguardo al Signore perché solo lui è la salvezza (Cf. Gv 19,37).
Siamo indegni e lo sappiamo, proprio per questo emerge lo splendore del dono che Cristo continua a farci, ci chiama fratelli e non si vergogna di questo (cf. Eb 2,11). L’eucarestia è come una carezza a figli distrutti e dispersi, ma ancora figli; un bacio a creature sfasciate e sfigurate, ma ancora creature. Non sappiamo se da questa frequentazione nascerà un cammino, se questo essere ospiti alla sua mensa porterà una nuova coscienza di prendere posto a tavola come membri consapevoli della famiglia di Dio, ci potrà e ci dovrà essere un cammino di conoscenza, approfondimento e riflessione.
Ma il più delle volte la prima cosa che fa un detenuto che arriva in questo luogo è venire a Messa, magari ricordando momenti lontani della propria vita; l’eucarestia è il primo approccio, anche se forse dovrebbe essere un punto di arrivo, dopo una fase di maturazione e di presa di coscienza. Invece è così e non è detto che sia sbagliato, anche perché manifesta il protendersi del Cristo verso l’umanità che il Padre gli ha affidato (cf. Gv 17,4-11). È vero che nella predicazione qualche volta sembra prevalere un atteggiamento di difesa, giustificabile per certi versi, per non banalizzare o vivere superficialmente questo dono; d’altra parte Cristo non si è tirato indietro neppure nei confronti di Giuda, che pure sapeva essere tutt’altro che ben disposto nei suoi confronti, ha donato a lui il suo Corpo non certo per peggiorare la sua situazione, ma perché Egli si offre senza riserve.
Riconoscere il dono anche nella coscienza del nostro peccato, forse questa è la condizione necessaria, riconoscere che non ci meriteremmo nulla eppure Cristo ci ha donato tutto dandoci se stesso. La cosa si fa più problematica se, basandosi sulla tranquillità del proprio sentirsi a posto, non siamo più capaci di riconoscerne la grandezza e la gratuità, ripercorrendo così la vicenda del fariseo e del pubblicano al tempio (cf. Lc 18,10-14).
*Cappellano del carcere di Prato