L’essenziale dell’evangelizzazione
Anche in questa domenica la Liturgia ci presenta un breve brano di vangelo tratto dal libro di Giovanni. Breve, ma ricco di contenuti essenziali per la vita dei discepoli del Maestro di Nazareth. Sono due i punti su cui mi vorrei soffermare brevemente: la Gloria di Gesù, il comandamento o il «mandato» nuovo, l’essenza della evangelizzazione. Parliamo prima di tutto della «Gloria» di Gesù. E questo nel duplice senso: nel senso della Gloria che Gesù dà a Dio e della Gloria che Dio dà a lui.
Ma cos’è questa Gloria? Per rispondere a questa domanda occorre stare bene attenti al momento in cui Gesù afferma di essere glorificato e di dare gloria a Dio. Il momento è immediatamente successivo all’uscita di Giuda dal cenacolo. Noi sappiamo bene cosa è andato a fare Giuda. E’ andato a prendere gli accordi con i nemici di Gesù per consegnarlo nelle loro mani. E’ chiaro, allora, che non si tratta di un trionfo per Gesù, non si tratta neppure di una manifestazione luminosa, splendente come fu la Trasfigurazione davanti agli apostoli, bensì della Gloria che proviene dall’ignominia della croce. Perché l’evangelista Giovanni «osa» chiamare Gloria questa ignominia? Se consultiamo un vocabolario su cosa significa «gloria», leggiamo: «Fama grandissima, onore universale che s’acquista per altezza di virtù, per meriti eccezionali, per atti di valore, per opere insigni». Occorre che lo riconosciamo con umiltà, ma con verità: a noi rimane difficile vedere nella morte in croce di Gesù «altezza di virtù, merito eccezionale, atto di valore, opera insigne», forse perché abbiamo dato più risalto alle sofferenze esterne che non alle «virtù interiori» con le quali Gesù ha accettato e vissuto per intero il cammino della croce. In quel volto sfigurato «splende» non tanto la grandezza della sofferenza, ma la «grandezza, la profondità e l’altezza dell’amore di Cristo per il Padre e del Padre verso di Lui e verso di noi». Tutto questo l’apostolo che Gesù amava chiama «Gloria». Oh, immensità e insondabilità dell’amore di Dio!
Il secondo punto su cui soffermarsi riguarda il comandamento o mandato o consegna che Gesù ci ha dato dell’amore tra di noi come qualcosa di «nuovo». Eppure il comandamento dell’amore era conosciuto anche dal popolo eletto. Allora, perché è «nuovo»? Perché avrà da essere a immagine del modo con il quale Gesù ci ha amati: «lo scandalo e la stoltezza» della crocifissione.
Non commettiamo però l’errore di credere che quello dell’amore sia solo «comandamento». Prima che comandamento è «dono» già dentro di noi per lo Spirito che ci è stato dato. Ecco: noi dobbiamo vivere con gli altri ciò che è vivo in noi! Quindi, non abbiamo paura di non farcela perché è lo Spirito che dà vita. Dal vissuto di questo mandato dell’amore, Gesù fa scaturire due conseguenze, tutte e due formidabili: la «presenza» sua in mezzo a noi e la veridicità che siamo discepoli di Lui.
Prima di consegnare il comandamento nuovo, Gesù afferma che ancora per poco sarà con gli apostoli, come a dire che la sua presenza in mezzo a loro cambierà modo e il modo nuovo è quello dell’amore degli uni verso gli altri. E’ questa la «misura» della presenza del Signore nella sua Chiesa, come lo è per la manifestazione al mondo che la Chiesa è discepola del suo Signore. Allora occorre chiederci quanto noi siamo Chiesa, cioè quanto ci amiamo gli uni gli altri: noi sacerdoti, noi religiosi e religiose, noi fedeli laici e laiche, noi parrocchie, noi famiglie, noi diocesi. La profondità e l’estensione di questo amore, sono il segno concreto di cui il mondo ha bisogno per credere che noi siamo discepoli di Gesù, il Crocifisso Risorto, e che questi è l’inviato del Padre nel quale tutti gli uomini possono trovare salvezza e pace. E’ questa, anche, l’essenza dell’evangelizzazione nostra e degli altri a cui ci richiama la celebrazione dell’Anno della Fede.