L’esperienza della morte e la forza che guarisce
La liturgia di questa domenica ci mette di fronte all’esperienza più drammatica per ogni essere umano, quella della propria mortalità. Da una parte essa segna la vita umana quasi come un marchio: sappiamo tutti di essere limitati, la finitezza è la caratteristica di ogni cosa sotto il cielo; dall’altra sperimentiamo un’attesa che nasce dal profondo, che ci dice che la vita umana non può essere solo un prodotto di reazioni chimiche aleatorie.
È il problema che l’uomo da sempre si è posto dando risposte diverse e contraddittorie, dall’esaltazione della dimensione terrestre di ogni realtà, alla sua svalutazione rispetto ai valori dello spirito. Il brano di Sapienza nella prima lettura (Sap 1,13-15; 2,23-24) annuncia con forza la bontà della creazione anche se vede in essa profonde crepe e incrinature nella quali si insinua la morte, frutto di un’azione ben precisa, quella del maligno (riprendendo e attualizzando la dottrina classica del peccato originale). Il problema rimane allora che fare adesso, visto che ormai la situazione di fatto è questa, fare buon viso a cattivo gioco, attendere se e quando un intervento radicale di Dio porrà rimedio a questa situazione? Sì e no.
In Cristo vi è stato un intervento radicale ma con diversi «capitoli» rimasti aperti. Se veramente la morte è collegata con l’ invidia, con un sentimento malvagio e distruttivo, forse non c’è bisogno solo di un intervento cosmico. La morte è molto più di un errore nell’algoritmo dell’universo, vi è la sensazione di un’ingiustizia che può alimentare le rimostranze contro Dio: non si contesta tanto il fatto che l’essere umano prima o poi muoia, ma le morti che sembrano innanzitutto ingiuste, i giovani, i bambini, come nel caso narrato nel vangelo di oggi (Mc 5,21-43). Però altre morti, quelle più lontane, fuori del proprio orizzonte personale, sono molto più tollerate, anzi rendere male per male, occhio per occhio, conserva il suo fascino (anche se nella Bibbia questa è una norma regolativa per non scadere in eccessi), perché in questa visione il male comune (che per il proverbio è mezzo gaudio) prevale sulla ricerca del bene comune (che spesso fa sbuffare come un compito ingrato), fino a tentare di addomesticare la morte per realizzare la propria idea di giustizia.
L’azione di Cristo che fa venire allo scoperto la donna che lo tocca ha anche questo scopo: condurre a dare un nome alla forza che guarisce, come pure alle forze distruttive, per non essere spettatori ma protagonisti del dramma della vita e delle diverse scelte, compresa la decisione della fede, assumendosene la responsabilità. E anche l’invito della seconda lettura (2Cor 8,7-15) a farsi carico dei bisogni altrui spinge in questa direzione: se mi sento in credito sempre e comunque con tutti, compreso Dio, se metto sempre me stesso, la mia famiglia, il mio clan, in prima fila, sarà difficile uscire da questa spirale mortifera. L’idea di uguaglianza è molto bella, ma forse non così tanto se mi trovo su un gradino superiore: significa che debbo scendere, che debbo perdere qualcosa. Ciò non vuol dire che sia un’esperienza totalmente a rimessa, l’altro potrà darmi qualcosa in umanità, in apertura, in impegno comune contro ciò che mortifica l’uomo, può arricchirmi, come Cristo, con la sua povertà, e questo per la Bibbia non è uno scambio fallimentare. La lotta del Cristo contro la morte cerca alleati, collaboratori, non spettatori neutrali che cercano soltanto il rimborso del biglietto.
*Cappellano del carcere di Prato