Leggere i segni del regno che viene
Il punto focale di questa liturgia domenicale è un annuncio che potrebbe rischiare di finire in secondo piano, sovrastato da altri, ovvero l’annuncio della buona notizia ai poveri da parte del Messia (Mt 11, 2-11). Potrebbe essere messo in ombra dalle altre opere dell’Inviato di Dio: la guarigione dei ciechi e degli zoppi, la liberazione dei prigionieri, come annunziato dal profeta Isaia (cf. Is 35, 1-10). Ma queste opere non sono immediatamente leggibili come segni del regno che viene. Infatti il Battista esprime, tramite i suoi inviati, le sue perplessità a Cristo, il quale ricorda a Giovanni queste opere che pur doveva conoscere data la sua frequentazione delle Sacre Scritture. Il fatto è che c’è una «grammatica» delle opere e dei prodigi del Messia che forse Giovanni non conosceva o collocava in un altro schema. I prodigi messianici dovevano illustrare quello che nei testi biblici è indicato come il giorno della vendetta (Is 35,4), mentre Cristo coniuga questi prodigi con l’annuncio ai poveri. Già altrove il vangelo opera questa sostituzione, come nel brano delle predicazione nella sinagoga di Nazaret dove, nella profezia che Gesù compie, al termine «anno della vendetta», viene sostituito «anno di misericordia» (cf Lc 4,16-21).
Non è che per forza dobbiamo pensare a un Battista assetato di sangue e distruzione, ma certo l’aspettativa di un capovolgimento e dello stabilirsi definitivo di un mondo diverso ci deve essere stato. Invece i prodigi di Cristo non diventano la norma, ma permangono con la realtà limitata della creazione. A prima vista sembra che tutto si sia risolto in uno spostamento in avanti: il regno arriverà alla fine dei tempi. Questo può provocare forse un certo disagio, una continua richiesta di credito da parte di Dio che rischia però, con l’andar del tempo, di logorare la fiducia del credente. Al che ci potrebbe essere ancora chi ribatte «è proprio per questo affievolimento che non si avvera quanto attendi», innescando così un circolo fra inadempimento delle promesse e inadempienza del fedele che si alimenta continuamente. Il signore Gesù ci offre, come già detto, una grammatica diversa.
Nessuno dei segni del Messia, di per sé, può garantire una adesione di fede. L’uomo può sempre cercare di alzare la posta: fai un segno anche per me, come hai fatto altrove. Oppure rendi questa una condizione stabile, per tutti: nessun malato, nessuna morte, pace cosmica. Invece nella grammatica di Cristo i suoi prodigi sono segnali, indicazioni di direzione per il nostro sguardo, posti in un cammino che si dipana lungo l’intera vita. Il segno del regno che avanza non è tanto l’esplosione dei prodigi e dei miracoli quanto l’annuncio dell’evangelo ai poveri che esprime un cambiamento di prospettiva fondamentale per la Chiesa stessa che deve annunciarlo.
Nessun mondo nuovo, neppure il regno di Dio, può stabilirsi saltando questo passaggio. E siccome si tratta di un annuncio, diventa un compito per la Chiesa di ogni tempo perché «come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?» (Rm 10,14). I segni del Messia nel Vangelo, nella storia, nel cammino della Chiesa, sono leggibili solo all’interno di questo annuncio ai poveri, altrimenti, come già per il Battista, rimangono incomprensibili. Ed ecco anche perché il più piccolo che fa propria questa grammatica è più grande di lui.
*Cappellano del carcere di Prato